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Letture della preghiera notturna dei certosini

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Anno A

 

Tempo Ordinario

 

Dodicesima  Settimana

 

177

 

Dal “Discorso sulla sobrietà e la virtù” di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute, I,31‑32. PG 93,1489.1492.

 

Noi che viviamo in monastero dobbiamo tagliare ogni nostra volontà davanti al superiore con una scelta deliberata e con cuore pronto. Con l'aiuto di Dio bisogna che diveniamo anche noi docili e come privi di volontà propria.

Giova essere esperti in tale atteggiamento per non lasciarsi turbare dall'ira e per non eccitare le nostre emozioni in modo irrazionale e contro natura. Altrimenti poi ci troveremmo senza libertà per il combattimento invisibile.

Se non tronchiamo con taglio deliberato la nostra volontà, essa suole adirarsi contro chi si appresta, nostro malgrado, a tagliarla. Infatti, l'irascibilità, messa in moto, abbaia selvaggiamente e distrugge la scienza della lotta, che a stento, con molta fatica, avevamo potuto conquistare.

L' irascibilità, per natura, è rovinosa; se viene mossa contro pensieri istigati da demoni, li rovina e li distrugge. Ma se insorge contro gli uomini rovina anche i buoni pensieri in noi. Allora: l'irascibilità è rovinosa nel confronti dei pensieri d'ogni genere, sia cattivi, sia eventualmente buoni. Infatti è arma e arco preparatoci da Dio, purché non miri contro ambedue. Qualora agisca diversamente, è rovinosa. Io so che anche un cane inferocito ammazza le pecore allo stesso modo dei lupi.

 

Così bisognerebbe fuggire l'eccessiva familiarità come veleno d'aspide ed evitare le molte conversazioni come serpenti e razza di vipere, poiché queste cose hanno la forza di stabilire l'anima nella completa dimenticanza del combattimento interiore. Purtroppo la fanno discendere dalla gioia eccelsa della purezza del cuore.

L'esecrabile dimenticanza si oppone all'attenzione come l'acqua al fuoco e di ora in ora le diviene nemica sempre più forte.

 

178

 

Dal “Discorso sulla sobrietà e la virtù” di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute,I,51‑53. PG 93,1497.

 

La sobrietà assomiglia alla scala di Giacobbe, al cui vertice sta Dio e sulla quale gli angeli salgono. Essa toglie da noi ogni male, giacché taglia via la loquacità, la maldicenza, la calunnia e la serie di tutti i mali sensibili; non sopporta infatti neppure per un poco di essere privata, per questi elementi estrinseci, della propria soavità.

Seguiamo volenterosamente la sobrietà, fratelli, e sollevandoci nelle sue contemplazioni con mente pura in Cristo Gesù, mettiamoci a considerare i nostri peccati e la vita passata. Così contriti e umiliati, nel ricordo delle nostre colpe, avremo l'aiuto continuo di Gesù Cristo nostro Dio, per affrontare la guerra invisibile.

A causa infatti della superbia, della vanagloria e dell'amor proprio, fummo privati dell'aiuto di Gesù, e non abbiamo raggiunto la purezza del cuore, per la quale Dio si fa conoscere all'uomo.

L'intelletto che non trascura il proprio segreto lavoro, insieme con gli altri beni che gli vengono dall'ininterrotta attività della custodia del cuore, troverà che anche i cinque sensi del corpo sono liberi dai mali esteriori.

Quando infatti l'intelletto bada esclusivamente alla virtù e alla sobrietà, cercando il diletto nei buoni pensieri, non sopporta di essere derubato da pensieri materiali e vani che gli vengono attraverso i cinque sensi; anzi, conoscendo la loro forza d'inganno, molto vigorosamente li opprime dentro di sé.

 

  

179

 

Dal “Discorso sulla sobrietà e la virtù” di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute, I,63.64. PG 93,1500.1501.

 

Il bene dell'umiltà per sua natura innalza ed è amato da Dio. Poiché l'umiltà distrugge quasi tutti i mali che pullulano in noi e sono odiosi a Dio, è naturalmente ardua da procurarsi.

Facilmente potresti trovare, in un uomo solo, alcune parziali operazioni di molte virtù; ma se volessi cercare in lui il profumo dell'umiltà, lo troveresti con grande fatica. Vedi come è necessaria molta sollecitudine per giungere a possedere l'umiltà?

Ci sono molte operazioni della mente capaci di procurarci il bel dono dell'umiltà, se pero non trascuriamo la nostra salvezza. Per esempio, fa ottenere l'umiltà il ricordo dei peccati commessi in parole, in opere, col pensiero; e ci sono moltissime altre cose che contribuiscono a renderci umili e sono colte mediante la contemplazione.

La vera umiltà produce anche questo risultato: fa sì che tu ripassi nella mente, una per una, le buone azioni del prossimo e magnifichi dentro di te le sue altre superiorità naturali, mentre esamini le azioni altrui, confrontandole con le tue proprie. Così la mente, vedendo quanto la propria piccolezza sia lontana dalla perfezione dei fratelli, si considera terra e cenere, non un uomo, ma un cane, perché di fronte a tutti gli esseri ragionevoli della terra, è manchevole e inferiore sotto ogni aspetto.

 

180

 

Dal “Discorso sulla sobrietà e la virtù” di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute, I,68.70‑71.73.79. PG 93,1501.1504.

 

Colui che si occupa senza interruzione delle realtà interiori è temperante; non solo, ma anche contempla, fa teologia e prega. Questo è ciò che dice l'Apostolo: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne.

Colui che ha rinunziato alle realtà di quaggiù, come la moglie e le ricchezze, ha fatto monaco l'uomo esteriore, ma non ancora l'uomo interiore; chi invece ha rinunziato ai pensieri originati nella mente da quelle passioni, è lui il vero monaco. È facile far monaco l'uomo esteriore: basta volerlo. Ma non è piccola lotta fare monaco l'uomo interiore.

Chi è dunque in questa generazione colui che, liberatosi interamente dai pensieri passionali, è stato fatto continuamente degno della preghiera pura e immateriale? Questo è appunto l'indice che rivela il monaco interiore.

Non dedicare tutto il tuo tempo a prestare attenzione al corpo, ma fissagli una disciplina secondo le sue forze e poi volgi tutto il tuo intelletto verso il mondo interiore. Sta scritto infatti che l'esercizio fisico è utile a poco, mentre la pietà è utile a tutto.

Il regno dei cieli non è la ricompensa delle nostre fatiche, ma dono grazioso che il Signore prepara per i suoi servi fedeli. Il servo non esige la libertà come mercede, ma se ne rallegra sapendosi debitore, e la riceve come grazia.

 

181

 

Dal “Discorso sulla sobrietà e la virtù” di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute, I,82‑84. PG 93,1505.

 

La luce che avvolge la stella è sua caratteristica propria, e la modestia e l'umiltà sono proprie dell'uomo devoto e timorato di Dio; poiché non c'è nessun altro segno che indichi e faccia conoscere i discepoli di Cristo quanto il pensiero umile e l'atteggiamento modesto. Lo gridano dovunque i quattro evangeli.

Chi non è cosi, cioè non vive umilmente, decade dall'aver parte con colui che umiliò se stesso fino alla croce e alla morte, ed è anche il legislatore e l'esecutore dei divini evangeli.

O voi tutti assetati ‑ grida il Signore ‑ venite all'acqua.

Ma voi che avete sete di Dio camminate in purezza di pen­siero. Perché colui che grazie ad esso vola in alto, bisogna che guardi anche alla terra della propria nullità. Nessuno

infatti è più alto dell'umile. Come quando non c'è luce tutto è oscuro e tenebroso, così anche quando manca il sentimento dell'umiltà, tutte le nostre cure per onorare Dio sono vane e guaste.

Conclusione del discorso. dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti sia spiritualmente sia sensibilmente. Se infatti ti costringerai a osservarli spiritualmente, a poco a poco avrai bisogno di fare sforzi sensibili per essi. Dice infatti il salmista: Ho voluto fare la tua volontà e la tua legge è nel centro del mio cuore.

 

182

 

Dal "Discorso sulla sobrietà e la virtù" di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute, I,88‑90. PG 93,1508.

 

Quanto più sarà somma l'attenzione della tua mente, altrettanto pregherai Gesù con desiderio; e quanto più sarai trascurato nel sorvegliare la mente, altrettanto ti allontanerai da Gesù. Come l'attenzione illumina in massimo grado il cielo della mente, così anche il sottrarsi dalla vigilanza e dalla dolce invocazione di Gesù, per sua natura, la oscura del tutto.

Ciò lo comprenderai per esperienza, facendone la prova con i fatti. Poiché non c'è virtù, e soprattutto una tale soave operazione generatrice di luce, se non è imparata con l'esperienza.

L'invocare ininterrottamente Gesù con un desiderio pieno di dolcezza e di gioia, è la causa per cui il cielo del cuore trabocchi di gaudio e di quiete, in seguito alla estrema attenzione. Ma la causa della purificazione somma del cuore è Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio, causa e artefice di tutti i beni. lo ‑ dice il Signore ‑ sono il Dio che fa la pace.

L'anima beneficata che ha ricevuto ogni dolcezza da Gesù, piena di esultazione e di amore, ricambia con la lode il benefattore: rende grazie e invoca con grande dolcezza nell'animo lui che le ha dato la pace. Spiritualmente poi lo vede dentro di sé che dissolve le fantasie provocate dagli spiriti maligni.

 

 

 

Letture della preghiera notturna dei certosini

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Anno C

 

Tempo Ordinario

 

Dodicesima  Settimana

 

VANGELO (Lc 15,1-10)

C’è gioia in cielo per un peccatore che si converte.

 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”.

Allora egli disse loro questa parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.

Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.

Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.

 

Misericordia di Dio

Nel suo Figlio, Dio ha voluto conoscere per esperienza la nostra miseria, affinché la sua misericordia fosse, se possibile, ancora più totale (177); essa è giunta fino a farlo morire per liberarci dalla mortale schiavitù in cui eravamo precipitati (176). 
Dio ha un solo desiderio: la nostra conversione (179), per cui non c’è da scoraggiarci se pecchiamo (178); occorre semplicemente rialzarci (175) con fiducia. Beata l’anima che arriva a percepire la misericordia divina! (180).

 

175

Lunedì

 

Dalla “Scala santa” di san Giovanni Climaco.

Grado 5°,35.30.33.36.45.46. Grado 26°,132. Op.cit.pp.104-106.258.

 

Finché la piaga è fresca e viva, guarisce facilmente; ma le piaghe vecchie, a lungo trascurate e lasciate andare, sono difficili da curare. Hanno bisogno d’essere curate con lunghi trattamenti, talvolta bisogna persino applicarvi il ferro e il fuoco. Molte ferite col tempo diventano incurabili. Eppure, tutto è possibile alla misericordia divina.

Noi, sprofondati com’eravamo nel baratro del peccato, non avremmo mai potuto emergerne salvo di immergerci nell’abisso dell’umiltà. Dopo ogni caduta, perciò lottiamo soprattutto contro il démone della tristezza; esso ci viene davanti nel tempo della preghiera, e rimettendoci in mente la nostra precedente familiarità con Dio, cerca di scoraggiarci, distruggendo la nostra orazione. Infatti, finché non pecchiamo, il maligno afferma che Dio è amico degli uomini; ma una volta che siamo caduti, pretende che l’Altissimo sia spietato.

Segno della remissione delle nostre colpe è crederci sempre debitori. Ma nulla mai equivale alla misericordia, nulla è uguale alla compassione di Dio. Ecco perché chi dispera, si condanna da sé. Perciò quando fossimo scoraggiati, non manchiamo di rammentarci del comandamento del Signore che ingiunse a Pietro di perdonare al peccatore settanta volte sette. Infatti colui che ha dato un simile precetto ad un altro, andrà ben più oltre.

 

176

Martedì

 

Da “La vita in Cristo” di Nicola Cabasilas.

Lib. VI, cap.VIII, PG 150,673.676.

 

Non un messo, non un angelo ebbe compassione di noi mentre giacevamo in tanta infelicità; ma lo stesso Signore, lui contro il quale eravamo in rivolta, lui che offendevamo con le nostre trasgressioni, lui stesso ebbe misericordia di noi: una misericordia inconcepibile, che non può essere espressa a parole, al di là di qualunque proporzione. Per noi non volle soltanto la liberazione dai mali, non si limitò a considerare suo il nostro dolore, lo fece suo in realtà e trasferi da noi in sé stesso i tormenti; accettò di apparire lui realmente misero per rendere noi beati.

Perciò, nei giorni della sua vita mortale (Eb 5,7) come dice Paolo, sembrò a molti degno di pietà e fu oggetto di compassione morendo di una morte ingiusta. Si battevano il petto e facevano lamenti su di lui (Lc 23,27), mentre era condotto a morte. Non solo provarono pena per lui i testimoni oculari, ma già Isaia, vedendolo di lontano, non poteva sopportarne la vista senza piangere e si lasciò sfuggire un lamento pieno di compassione come il compianto per un morto: Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi (Is 53,2), senza onore è il suo aspetto, informe la sua figura tra i figli degli uomini.

Che cosa può eguagliare la compassione di Cristo? Egli non partecipa soltanto col pensiero e col desiderio alle sofferenze degli infelici, ma nella realtà; non si accontenta di essere mediatore per le nostre sventure, ma prende tutto su di sé e muore la nostra morte. Dall’espulsione dalla nostra vera patria, dalla miseria, dalla malattia, dalla più infelice schiavitù , dall’estrema follia, da tutto questo siamo stati liberati per le viscere di misericordia del nostro Dio.

 

177

Mercoledì

 

Dal trattato “Sui gradi dell’umiltà” di san Bernardo.

N.12. PL 182,948

 

Per la sua indicibile misericordia, Dio è sceso fin dove gli uomini erano precipitati. Quanto essi giustamente soffrivano per avere agito contro di lui, egli volle sperimentarlo in sé stesso; non certo per lo stesso moto di curiosità che aveva mosso i nostri primogenitori, ma per stupenda carità; e non per rimanere in seguito infelice tra gli infelici, ma per diventare misericordioso e liberare gli infelici. Egli diventò misericordioso, ripeto, non della misericordia che aveva sempre avuto nella sua beata eternità, ma della misericordia che ha trovato nella nostra veste di carne, percorrendo lui stesso l’itinerario della miseria. Allora, l’opera di amore paterno che aveva iniziato con la prima misericordia, l’ha completata con la seconda. E non voglio dire che la misericordia di Dio non potesse bastare; ma perché a noi essa non poteva essere sufficiente senza la seconda misericordia, quella dell’Uomo Dio. Entrambe sono necessarie, ma la più adatta è la seconda. Ineffabile logica dell’amore! Come potremmo immaginare quella meravigliosa misericordia a cui in precedenza la miseria non ha dato forma? Come riconosceremmo questa compassione che ci è ignota, che la sofferenza non ha preceduta, e cha è eterna in Dio allo stesso modo della sua impassibilità?

Eppure, se la misericordia divina che ignora la miseria non fosse all’origine, l’altra che ha la miseria per madre, non sarebbe venuta: se non fosse venuta, non ci avrebbe attirati, se non ci avesse attirati, non ci avrebbe strappati, strappati da che se non dalla fossa della morte e dal fango della palude ? (Sal 39,3). E Dio non ha abbandonato la sua prima misericordia, ma vi ha aggiunto la seconda. Non ha mutato, ma ha moltiplicato.

 

178

Giovedì

 

Dal trattato “Non bisogna disperare” di Pietro Damasceno.

FG 3°, 142-143.

 

Non dobbiamo disperarci se non siamo come bisogna essere. E’ male che tu abbia peccato, o uomo! Ma perché fai ingiustizia a Dio e credi, nella tua ignoranza, che sia impotente? Forse è impotente a salvare la tua anima Colui che per te ha fatto questo mondo che vedi? Ma se tu dici: “Questo è piuttosto a mia condanna come pure la sua condiscendenza”, pentiti ed egli accetta la tua penitenza come quella del figliol prodigo e della meretrice.

Se poi non puoi fare neppure questo, ma per abitudine continui a cadere in ciò che pure non vorresti, abbi umiltà come il pubblicano e ciò ti basta per la salvezza. Chi infatti pecca senza pentirsi, ma non dispera, necessariamente si mette al di sotto di qualsiasi creatura e non osa condannare o biasimare alcun uomo. Egli ammira piuttosto l’amore di Dio per l’uomo, è riconoscente nei confronti del Benefattore e può avere molti altri beni.

Se si assoggetta al diavolo per peccare, ma poi di nuovo per il timore di Dio disubbidisce al nemico che lo spinge alla disperazione, per questo egli è porzione di Dio. Possiede infatti riconoscenza, rendimento di grazie, sopportazione, timore di Dio, e il non giudicare per non essere giudicato, cose grandemente necessarie.

 

179

Venerdì

 

Dalle “Lettere” di san Massimo il confessore.

Lettera 11. PG 91,454ss.

 

I predicatori della verità, coloro che sono i ministri della grazia,ci hanno insegnato, fin dalle origini e ognuno nella sua epoca fino ad oggi, che Dio vuole la nostra salvezza. Essi ci affermano che Dio ci ama e nulla desidera tanto quanto vedere gli uomini volgersi verso di lui mediante un’autentica conversione.

Il Verbo divino di Dio Padre ha voluto dimostrare che tale desiderio era più divino di qualsiasi altro. Anzi, è lui stesso il primo e incomparabile testimone della bontà infinita. Attraverso un abbassamento in nostro favore, che sfida ogni espressione, si è degnato condividere la nostra esistenza con l’Incarnazione. Mediante i suoi atti, i suoi patimenti, le sue parole adatte alla nostra condizione, ci ha riconciliati con Dio Padre, quando noi eravamo come nemici in guerra con lui; banditi e in esilio dalla vita beata, egli ci ha fatto ritornare colà.

Non si è infatti accontentato di guarire le nostre malattie con i suoi miracoli, prendendo su di sé le nostre sofferenze e debolezze; non gli bastò : accettando la morte liberamente, lui che è senza peccato, ha pagato il nostro debito e ci ha liberato da colpe spaventose e molteplici. Inoltre, ci ha istruiti in mille modi perché avessimo una bontà simile alla sua e ci ha invitati al perfetto amore vicendevole.

Ecco perché esclamava: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi (Lc 6,31-32). E ci ha anche garantito che era venuto a salvare ciò che era perduto (Mt 18,11) in terra. Poi con la parabola della dramma perduta ha suggerito che era venuto a ricuperare l’effigie regale imbrattata dalla sporcizia dei vizi. E ha ancora avuto una  parola consolantissima, quando ci ha assicurato: C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte (Lc 15,10).

 

180

Sabato

 

Dalle “Omelie” attribuite a Macario l’egiziano.

Hom.12,2,3-4. S Ch 275,169-171.

 

Se l’anima sperimentasse sempre dolcezza, quiete e gioia, non saprebbe che cosa ha guadagnato: ignorerebbe l’immensità del bene e della benevolenza del Signore. Non potrebbe sapere quanto sia amaro il peccato e ignorerebbe la sua perversità intrinseca. Perciò l’indicibile sapienza di Dio dispone altrimenti: perché l’anima conosca sperimentalmente la sua bontà divina, permette che gusti l’amarezza del male. Così l’anima è formata e percorrendo la sua corsa con ardore gagliardo e immenso desiderio per il bene, ha i sensi esercitati a saper discernere il bene dal male. Alla fine essa arriverà al pieno sviluppo spirituale e sarà costituita erede del regno.

Cosi è la legge della vita spirituale; l’anima gusta solo a poco a poco il regno, proprio perché possa amare Dio con tutta la sua volontà e la sua libera decisione, perché sia chiara la libera scelta che fa aderendo al Signore. In altri termini: se il cuore gusta a goccia a goccia la dolcezza divina, ciò ha uno scopo: esso potrà ereditare a giusto titolo il regno e dopo aver lottato e corso con tutte le energie, possederà la certezza davanti al Signore di essere ammesso al suo cospetto.

 

 

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