Dalle lettere

 

 
 

Lettera del 31 maggio 1427 ai certosini inglesi

[Enrico VI d'Inghilterra, desiderando avere nel suo stato una certosa, attribuì abusivamente alla fondazione di questa i beni dell'abbazia benedettina di S. Ebrulfo. Di qui le proteste dei benedettini. Richiesto di un suo intervento, l'Albergati non esitò a riconoscere il diritto dei benedettini e l'obbligo da parte dei certosini della restituzione dei beni appartenenti all'abbazia di S. Ebrulfo, con la seguente lettera inviata nel 1427 ai suoi confratelli inglesi.]

Eterna salute e pace! Venerabili e religiosi Padri, sono stato indotto a scrivervi la presente lettera da vera e grandissima carità, che mi obbliga giustamente nei vostri confronti, a motivo della religiosità del vostro santo Ordine, in cui pure noi imparammo da Dio a militare. Infatti, Padri carissimi, è proprio della carità fraterna il compito di prestarsi vicendevolmente dei consigli, specialmente per la mutua salvezza delle anime. Intendiamo dire, venerabili Padri, che il nostro intervento riguarda l'affare di cui ci giunse notizia poco tempo fa. Il R. P. abate del monastero di S. Ebrulfo in Normandia, della diocesi dei Lessovii, venne alla Curia di Roma per rivendicare i diritti del suo monastero, mediante vie legali.

Dopo aver ascoltato la relazione dei fatti, ci è sembrato che voi, Padri, occupiate abusivamente (quelle terre), anche se possedete la testimonianza di documenti pubblici. E poiché l'abate cercava un difensore per la sua causa, ricevette il patrocinio dal reverendissimo Padre in Cristo e mio signore, il signor cardinale Piacentino, e ora si fa forza del suo consiglio e della sua difesa. Ora per questo il suddetto signor cardinale, per il rispetto e la devozione che nutre verso il vostro santo Ordine, decise di affidare a me questa faccenda, e per la stessa buona reputazione dell'Ordine volle che quanto prima scrivessi a voi Padri, per esortarvi a consegnare al suddetto R. P. abate, senza contese e senza liti, i beni del suo monastero, che a noi sembra teniate ingiustamente, anche se li possedete con l'autorità del re e vengono difesi in modo quasi militare.

È assai indegno, venerabili Padri, che si commetta una colpa tanto grave da uomini di un Ordine così perfetto, i quali non temono di arricchirsi a danno degli altri. Mentre cuori onesti temono che vi sia colpa anche quando colpa non c'è, quanto più dovranno temere là dove in realtà c'è?

Dunque, venerabili Padri, vi esorto e vi supplico nel Signore Gesù Cristo, con tutta la carità che posso, perché in una cosa così delicata provvediate con rettitudine per voi e per i posteri; e non cerchiate, col pretesto di pietà e di culto divino, di ritenere lecito ciò che è proibito da ogni diritto. Non vi ho scritto questo per interesse; se però avessi mancato nel mio modo di parlare, chiedo scusa. E vi supplico di pregare per me, ottimi Padri, che saluto nel Signore.


 

Lettera del 23 aprile 1434 ai vicari episcopali di Bologna

Alcuni cittadini di Bologna ci pregano insistentemente e filialmente di concedere la grazia a un certo giovane bolognese, figlio di una vedova, al quale accadde la sventura di uccidere casualmente un suo servo, che lo accompagnava di notte con una lanterna. Essendo stato provocato da alcuni individui alla rissa, prese la lampada per colpirli, ma con la medesima colpì incidentalmente anche il suo domestico, il quale a causa di questa percossa morì dopo otto giorni. Il giovane si pentì grandemente di quell'incidente, e lo stesso padre dell'ucciso, considerando che la morte era stata provocata involontariamente, gli ha perdonato ogni colpa. (…).

Per questo omicidio fu condannato da voi all'esilio perpetuo e a una multa di mille fiorini. Noi, consapevoli che né la misericordia può sussistere senza la giustizia, né la giustizia senza la misericordia, accorderemo volentieri la grazia, se le cose stanno veramente come ci hanno riferito.


 

Lettera del 12 luglio 1437 al vescovo di Como

Abbiamo ricevuto nei giorni scorsi una lettera di vostra Paternità con diverse altre missive, che non abbiamo potuto leggere allora a causa di una nostra grave infermità, e quindi non potemmo rispondere. Ma essendoci da poco alquanto ristabiliti, dopo aver letti siffatti scritti, rispondiamo noi stessi brevemente, dato che li avete indirizzati direttamente a noi e che il santissimo nostro signore, il Papa, molto probabilmente non risponderà affatto, essendo il tenore delle lettere tale da non meritarsi che una risposta spiacevole.

Dobbiamo rispondere che quell'illustre Principe (il Visconti) non ha nessun motivo di lamentarsi, come vostra Paternità e noi bene sappiamo. Infatti il sommo Pontefice, come vi è noto, si è adoperato assai e con calore per la pace in favore di sua Altezza. Pertanto, anche se si tratta di accordi che non furono corroborati da documenti autentici, il Visconti non ha nessuna ragione di lamentarsi con il Pontefice, poiché il Papa soddisfece e soddisfa con fatti concreti a tutte quelle esigenze che sono necessarie a conservare la pace e la carità tra sua Altezza e lui.

Ma il Duca continua a lavorare contro sua Santità con azioni gravi e moleste, come fece nel Concilio e in altre occasioni, pur sapendo essere ciò inviso e spiacevole al sommo Pontefice. Ci perdoni perciò sua Altezza se ci angustia il timore che l'ira divina si rivolga contro di lui che combatte contro cose sacre e, dimentico della patria e della sua nazione, vuole con furore tutto sconvolgere e consegnare il suo popolo in mani straniere. Voglia perdonarci, e non gli dispiaccia, se francamente gli diciamo che, agendo così, fa male, molto male, veramente male!

Lo supplichiamo e scongiuriamo perciò con tutte le preghiere che possiamo, affinché lasci questi suoi propositi, convertendoli invece nel mettere ogni impegno a obbedire al sommo Pontefice e a custodire lo stato della Sede Apostolica e a non volere, a causa della sua ira, consegnare la sua gente in mano allo straniero.

Queste cose abbiamo voluto scrivere alla Paternità vostra reverendissima, affinché le comunichi a sua Altezza, raccomandandoci a lui. Desiderando ogni bene a vostra Paternità, l'assicuriamo di aver scritto questa lettera con profondo spirito di carità.


 

Lettera del 14 dicembre 1439 ai canonici e al Capitolo della Chiesa Bolognese

Venerabili amici nostri carissimi, vi auguro ogni bene nel Signore. Ci preoccupiamo ogni giorno di fornire la nostra cattedrale di ogni ornamento e di allestirla di tutto ciò che si convenga per una degna celebrazione del culto divino, come del resto è nostro dovere, nella misura delle nostre risorse, in modo che si possa avere un efficace miglioramento delle celebrazioni liturgiche.

Pertanto abbiamo di recente fatto confezionare dei magnifici paramenti bianchi, e ci siamo adoperati di inviarli attraverso il nostro domestico Lodovico, che ci è caro in Cristo ed è il latore della presente lettera. Vogliamo donarli a quella nostra chiesa in riverente omaggio a Dio, alla gloriosa Vergine Maria e ai beati apostoli Piero e Paolo, pregando affettuosamente le vostre Reverenze di aver ogni cura nel ben custodire detti paramenti e nel mettere in atto tutto ciò che serva a migliorare il culto divino e al decoro della medesima chiesa, cose che rientrano nei vostri compiti. Anche il nostro maestro Tommaso, vostro compagno nel canonicato, vi invia un piviale bianco per l'entrata nel suo ufficio di canonico.

Statemi tutti bene in Cristo, e vi supplico nel Signore di fare tutto il possibile, perché nella suddetta nostra chiesa i divini uffici vengano celebrati con ogni cura e pietà, cosa che tornerà particolarissimamente gradita al nostro animo. Da parte mia sono sempre pronto à fare tutto ciò che sia a voi gradito.