Il silenzio e la Parola

La lectio divina nell’esperienza di un certosino

 

 
 

All’inizio del nostro Ordine, il nono priore della Grande Chartreuse, Guigo II (morto nel 1188), scrive, la famosa Scala claustralium, testo che è l’unica trattazione patristica sistematica che ci sia pervenuta sulla lectio divina, e che resta oggi, pur nella sua brevità, un testo fondamentale, quasi un manifesto, per chiunque voglia accostarsi a quest’esperienza.

Per noi monaci certosini è molto importante che tale scritto sulla lectio provenga proprio dalle origini della nostra esperienza, infatti la forma stessa della nostra vocazione, vissuta nella solitudine e nel silenzio della cella, alla ricerca di un colloquio sempre più intenso col Signore, trova il suo cuore, e direi anche la sua spiegazione, proprio nella pratica assidua della lectio divina.

Il medioevo monastico era ricolmo di esperienza biblica, infatti tutti i monaci usavano relazionarsi costantemente col testo delle Scritture, sia nel canto liturgico che nello studio della teologia, nella catechesi e nelle arti figurative e in ogni altra attività cui fossero chiamati; ciò nasceva dalla consapevolezza che la Parola del Signore fosse veramente il centro di tutta l’esistenza cristiana e, di conseguenza, la Bibbia era il testo fondamentale su cui basare ogni discorso e ogni esperienza spirituale.

Tuttavia questa centralità della Parola assume un colore tutto particolare quando, intorno all’XI secolo, comincia a rifiorire l’antica esperienza eremitica, attraverso il sorgere di nuove forme di vita monastica, caratterizzate dall’importanza sempre maggiore che veniva data alla solitudine e alla custodia della cella. Fra queste, l’esperienza certosina si caratterizza subito per il fatto che il monaco, fin dal suo ingresso in monastero, è chiamato a vivere quella vita solitaria che, in armonioso ritmo con la vita comune, lo guiderà per tutta la vita. Si trova quindi a trascorrere in cella la maggior parte delle ore della giornata, dedicandosi nella solitudine e nel silenzio, alla preghiera e al lavoro manuale.

Questa solitudine e questo silenzio diventano, attraverso la relazione continua con la Parola, il contesto privilegiato dell’incontro e del dialogo col Signore, e la cella per il monaco è “la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l’anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti alle terrene, le divine alle umane.” Queste parole, che sono ancora oggi presenti negli Statuti Certosini (4.1) e che caratterizzano costantemente la spiritualità del monaco che vive in Certosa, rimandano necessariamente al cuore stesso di una solitudine e di un silenzio in cerca del Verbo di Dio: l’amorosa, attenta, povera, ma anche ricchissima lettura della Parola.

È per gratitudine nei confronti dei nostri padri e di questa nostra tradizione, che ho pensato di suddividere proprio secondo i quattro “gradini” di cui parla il testo di Guigo (lectio, meditatio, oratio, contemplatio), queste poche tracce di esperienze personali relative alla lectio, che naturalmente non vogliono (e non potrebbero) esaurire la molteplicità e la ricchezza di questo cammino, così come viene vissuto da ciascuno nel segreto e nel nascondimento.

Chi ha fatto esperienza della lectio assidua e fedele nella solitudine della cella, conosce anche come le varie tappe s’intersecano e si sovrappongono in modo imprevedibile, e ciò avviene proprio perché, essendo la lectio divina soprattutto un continuo dialogo col Signore, non può essere gestita o programmata a priori, ma il suo stesso sviluppo sarà anche frutto dell’ascolto e dell’attenzione.

 

Alla mensa della Parola (la lectio)

Il rapporto diretto col testo, con la “Sacra pagina” di cui parlavano gli antichi, è la prima ed irrinunciabile dimensione in cui si deve entrare per fare esperienza della Parola. Il Dio che si è fatto carne mi si presenta nella concreta realtà di uno scritto, un libro, un rotolo. Quelle parole contengono l’unica Parola che è stata consegnata alla Chiesa, sacramento della presenza amorosa e continua del “Dio che parla”.

Leggere non è facile, perché è innanzi tutto un atto d’amore, e come ogni atto d’amore richiede uno sforzo particolare d’attenzione e di vigilanza e va fatto nella quiete e senza fretta. Di fronte al testo il cuore deve aprirsi alla gioia di chi riceve personalmente un messaggio, come “una lettera di un amico” diceva il mio maestro dei novizi, una lettera scritta oggi per me, un testo che proprio oggi vuol dirmi qualcosa di speciale e richiede tutta la mia attenzione.

Qual è la più grande offesa che si può fare ad un amico che mi si rivolge per parlarmi? Ritenere di sapere già tutto quello che vuole dirmi. Quest’atto di presunzione non solo offende l’amore, ma chiude irrimediabilmente ogni mia possibilità d’ascolto. Quanti passi biblici non riescono più a parlare al nostro cuore proprio perché crediamo di conoscerli già molto bene!

La lettura amorosa del testo è quindi soprattutto una lettura umile, che non teme di ripercorrere strade già fatte, che s’interroga sui possibili significati delle parole, che cerca continuamente di superare la distanza tra chi ascolta e chi parla; esattamente come leggiamo le lettere delle persone cui siamo molto legati, ma vivono lontane da noi.

Dammi sempre, Signore, quest’umile stupore di fronte alla novità della tua Parola, dammelo ogni giorno, affinché il mio ascolto sia assiduo e intenso, e concedimi di viverlo sempre nella quiete, liberandomi dalla fretta.

È proprio la fretta, nella lectio, il secondo nemico, forse ancora più insidioso della presunzione. Ci fa credere che è bene dover passare subito ad una dimensione di preghiera e quindi basterebbe una veloce scorsa al testo. Il problema invece non è quello di stabilire delle tappe per poi superarle, ma di entrare in un continuo colloquio che, partendo dalla lettura, si svilupperà da sé, senza forzature o schemi. Gli antichi padri consigliavano di leggere il testo sacro a voce alta, proprio per rispettarlo con devozione e soprattutto per evitare che una lettura solo mentale sorvoli troppo velocemente le frasi e le parole. Ho seguito spesso questo consiglio e ho scoperto che anche qui è in gioco l’umiltà. L’umiltà di rendere oggettivo anche il suono di quelle parole che mi si stanno offrendo, nella loro sublime povertà, l’umiltà di ascoltarle nella solitudine della mia cella e di percepirne l’eco misteriosa nel silenzio che ne segue.

Infine la pazienza nella lettura si esprime anche in rapporto allo studio. La lectio certamente non va confusa con lo studio, ma, nell’esperienza che ne ho fatta, mi sono accorto che lo presuppone necessariamente. Anche questo è un atto d’umiltà: rendersi conto che la lettura crescerà col crescere della mia consapevolezza nei confronti del testo e quindi sentirmi chiamato a svilupparla sempre più, partendo dagli strumenti che mi sono concessi per spingere (anche con un po’ di fatica) l’ascolto fin dove mi sarà possibile.

 

Masticare e ruminare (la meditatio)

“Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19) quest’immagine ricorrente dell’atteggiamento attento ed accogliente della Vergine è molto cara a tutti monaci che praticano la lectio divina ed in particolare ai certosini, che hanno scelto Maria come la madre della loro preghiera.

Ma cosa vuol dire “meditare” la Parola? Il rischio, in cui tutti incorriamo, è quello di considerare questo il momento intellettuale della lectio, quasi scambiandolo con lo studio. Invece è proprio questa la fase in cui si chiarisce la sostanziale specialità del momento della lectio rispetto a qualsiasi altro approccio intellettuale o speculativo con la Parola del Signore. Nel testo greco del citato passo di Luca, il verbo usato è symballein, che letteralmente vuol dire “mettere insieme”, così si avrebbe: “Maria serbava tutte queste cose (lett. “parole”), mettendole insieme nel suo cuore”. Quindi l’atteggiamento richiesto dal cuore che medita è fondamentalmente la capacità d’essere accogliente. Un cuore che sappia allargarsi, per farsi santuario e tempio del Signore che si rende presente attraverso la sua Parola.

Mi è capitato spesso di percepire la differenza tra il tentare di comprendere (cioè “afferrare”) la Scrittura con il lavoro della sola intelligenza, e il lasciarsi penetrare da essa in un atteggiamento di puro ascolto meditativo. Salomone ha chiesto questo cuore “docile” al Signore (1 Re 3,9) ed il testo usa proprio l’espressione “cuore capace d’ascoltare”.

Ma come avviene concretamente questa meditazione del testo? Qui le esperienze personali sono le più svariate, e bisognerebbe farsi raccontare da ogni monaco il suo incontro profondo col testo. A me piace molto l’espressione latina tradizionale che chiama quest’attività: ruminatio. È quasi un continuo masticare ed assaporare un cibo gustoso: i padri associano spesso alla ruminatio l’immagine di palatum cordis, c’è un “gusto del cuore” che assapora la dolcezza di quelle sante parole.

Come fare a descrivere questa dolcezza del rimasticare continuamente, durante la giornata, quei versetti che mi sono stati donati nella lectio? S. Bernardo mi viene in aiuto: “Quando io “rumino” soavemente la Parola di Dio, le mie viscere si riempiono, il mio interiore è nutrito, il mio cuore riceve luce per comprendere, la mia bocca parola per edificare, le mie mani opere di giustizia” (Sul Cantico XVI, 2).

Questo “ruminare” in fondo somiglia al vocabolo ebraico corrispondente per indicare la meditazione: hagah, che letteralmente è il borbottare di una pentola che bolle (cfr. Sal 1,2). I monaci che vivono in solitudine conoscono molto bene questo “borbottare” causato dalla Parola che affiora sulle loro labbra mentre lavorano o passeggiano nel giardino: ha la stessa irresistibilità della Preghiera del cuore. Ecco il motivo per cui i nostri padri consideravano così importante il lavoro di trascrizione dei testi biblici, non si trattava solo di un’attività “editoriale”, ma era soprattutto un modo di masticare continuamente la Parola del Signore, così come anche lo era il consiglio di imparare a memoria dei versetti per ripeterli nel silenzio della cella.

  

Una lettura dialogata (l’oratio)

In quale momento la lectio e la meditatio debbono diventare preghiera? La risposta è molto semplice: o subito o mai!

Dobbiamo necessariamente superare lo schematismo delle varie fasi, da dover percorrere ad una ad una, per poter pervenire finalmente a “pregare il testo”. La lectio divina, per essere veramente tale, deve essere immersa, fin dal suo inizio, in un dialogo intimo e sincero col Signore, che è già “preghiera”, ed è soprattutto la consapevolezza che lui mi sta parlando, in questo momento, in modo del tutto personale. Questo mistero è il cuore stesso della “religione rivelata” e quindi costituisce la vera ragion d’essere della lectio.

“Mi fu rivolta la Parola del Signore” è l’espressione ricorrente nei Profeti ed è ciò che li rende autenticamente “uomini della Parola”. Non perché l’abbiano predicata, ma perché l’hanno ascoltata in spirito d’adorazione. Così il monaco, ma anche ogni cristiano, che vuole divenire “uomo della Parola” deve innanzitutto accostarsi ad essa come ci si accosta ad un luogo sacro, non solo col raccoglimento ed il rispetto necessario, ma soprattutto in atteggiamento di dialogo orante col Signore.

Mi capita spesso di far precedere la lettura della Parola da quella preghiera di Salomone che citavo prima: “Concedi al Tuo servo un cuore docile” (1 Re 3, 9), ma anche “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3,9) ed altre simili. Solo un atteggiamento di preghiera assunto fin dall’inizio della lettura farà sì che la Parola possa essere pregata; e allora non sai più cos’è che ti brucia il cuore in quei momenti, se le sante Parole che stai continuamente ruminando, oppure il fatto che esse sono già divenute sulle tue labbra preghiera, adorante e supplichevole.

Non si tratta quindi di stabilire dei confini tra quando parla il Signore e io l’ascolto, e quando parlo io e lui mi ascolta, quasi si trattasse di turni. La Parola pregata è piuttosto come il dialogo tra due innamorati, che guardandosi negli occhi assaporano tutte le parole che scorrono tra loro. È così che la mia preghiera assume le parole del Signore, prega con esse e le fa proprie, perché sono il dono più bello che l’anima ha ricevuto ed essa parla “dalla pienezza del cuore”.

La vera preghiera del monaco deve essere incessante, continuamente sgorgante dal cuore; ma come posso, Signore, essere fedele e costante in quest’atteggiamento? La mente si distrae, il cuore viene preso da tante piccole preoccupazioni, come pervenire alla preghiera incessante anche durante le attività della mia giornata? Mi è venuta l’idea di tenere nella mia cella, su un leggio, la Bibbia sempre aperta sul passo della lectio del giorno, così che posso ricorrevi in qualsiasi momento, anzi mi basta solo uno sguardo a quella pagina “che mi guarda”, per ricordarmi la Grazia di quelle Parole, e che quel testo mi è stato donato per farne una costante preghiera.

 

 Dalla Parola al Silenzio (la contemplatio)

Cos’è la contemplazione della Parola? Il verbo contemplare riguarda piuttosto la vista, mentre l’ascolto della Parola ci fa pensare piuttosto all’udito.

Claudel diceva che la Bibbia è “il libro dell’ammirazione e della contemplazione” perché spalanca davanti allo sguardo di fede il poema delle “mirabili opere di Dio”, e quali sono queste opere di Dio, se non il mistero straordinario della Redenzione? Una lettura attenta, meditata e pregata, non può non rinviarci continuamente al volto splendente del Cristo, di cui parla ogni versetto della Scrittura, e che ci parla…in ogni versetto! Lo splendore di questo volto incarnato e trasfigurato di luce, dalla mangiatoia di Betlemme alla Croce, s’impone come mistero di silenzio a chi ha ricevuto il dono di poter penetrare, nella meditazione e nella preghiera, il testo sacro. A quel punto, mente e labbra tacciono e vi è solo un semplice fissare lo sguardo su Dio, mentre il cuore si protende in una preghiera senza parole.

Mi rendo conto che, a questo punto, le mie povere considerazioni si riducono solo ad un balbettìo infantile e forse inutile; non credo che mi sia possibile esprimere ciò che è giusto che rimanga avvolto nel silenzio, perché dal silenzio proviene quest’esperienza e nel silenzio deve immergersi.

Credo che la contemplatio della Parola riconduca al mistero stesso del Verbo di Dio che, da sempre “era presso Dio ed era Dio”. Verbo silenzioso, mistero dello stesso Silenzio che si fa carne e si offre a tutti noi per essere mangiato, assaporato. Verbo che, divenuto preghiera nelle nostre viscere, genera il silenzio, quel silenzio di Maria che ha dato la carne al Salvatore, quel silenzio in cui l’anima s’immerge per trovarvi l’essenza stessa di ogni Parola che ha ascoltata.

 Con questo ritorno nel Silenzio, la lectio quotidiana del monaco ha trovato il suo compimento e il suo riposo in un totale abbandono all’abbraccio silenzioso del Padre. Il monaco ha scoperto che nel silenzio di Dio, anche in quello più difficile e duro da vivere, sta la sorgente della Parola e questa gli viene offerta come sgorgante dall’incessante amore che proviene da quel silenzio e nel silenzio deve ritornare.