Dom André Louf, nato nel 1929 a Lovanio, è entrato nel 1951 nell’Abbazia cistercense di Mont-des-Cats, nella diocesi di Lille. Ne è divenuto il Padre Abate nel 1963, ed ha dato le dimissioni nel 1997. Ha trascorso gli ultimi anni della sua vita presso un monastero di monache benedettine nel sud della Francia, da dove spesso si recava nella Certosa di Serra San Bruno per prolungati periodi di ritiro. Nel 2005 è stato incaricato di scrivere le meditazioni per la Via Crucis del Papa al Colosseo. È morto nel 2011.

 

 

 

Tra le opere principali segnaliamo dalle Ed. Qiqajon di Bose:

  • Signore, insegnaci a pregare
  • Sotto la guida dello Spirito
  • Generati dallo Spirito
  • L’umiltà
  • La vita spirituale
  • Cantare la vita. Autobiografia

Il testo su S. Bruno che pubblichiamo qui di seguito è stato scritto in uno dei suoi ritiri a Serra San Bruno e pubblicato in francese dalla rivista Documents Episcopat nel 2001.

 

SAN BRUNO – L’ESPERIENZA DEL DESERTO

Dom André Louf

 

 

            San Bruno, il padre dei certosini si spense il 6 ottobre dell’anno 1101, nella pace del suo eremo calabrese. Le sue ultime parole furono quelle di una professione di fede trinitaria, che i suoi compagni devotamente trascrissero e in parte consegnarono in una lettera enciclica annessa al suo rotolo funebre(1). Oggi queste ultime parole di Bruno sono ancora più preziose, se si considera che il santo ha lasciato pochi scritti.

            La perdita di Bruno fu un momento doloroso, non solo per i suoi compagni di Calabria, ma anche per i suoi fratelli di Chartreuse, che, dopo la sua partenza per Roma, avevano sempre sperato di rivederlo. Per quelli che l’avevano conosciuto personalmente, fu un «uomo dal profondo buonsenso», un «padre incomparabile», una «perfetta guida spirituale». Tante lodi tuttavia non mettono in ombra il suo stato di semplice monaco, che aveva amato al di sopra di tutto: il suo corpo fu inumato nel cimitero dell’eremo(2), come si fa ancora per tutti i certosini, nella nuda terra(3). Si dovrà attendere il 1514 per vedere il cardinale Luigi D’Aragona ottenere la sua canonizzazione vivæ vocis oraculo, seguita poi, il 1 novembre dello stesso anno, dall’esaltazione delle sue reliquie, e più tardi, nel 1623, dall’inserimento della festa nel breviario romano(4)

            Innanzitutto è attraverso lo svolgersi della sua storia personale che San Bruno di Colonia imprimerà il suo sigillo sull’Ordine che da lui nascerà. Una storia composta di fatto da un dittico in due tavole, separate da una netta cesura. Intorno ai cinquant’anni, Bruno rompe piuttosto bruscamente con una vita di servizio esterno alla Chiesa, nell’insegnamento universitario, e parte alla ricerca di una solitudine per non consacrarsi che ad una vita di preghiera e di intimità con Dio; e ciò in un modo ancora più inatteso, se visto dall’evolversi esterno delle vicende, tenendo presente che all’epoca i suoi contemporanei l’attendevano sul seggio arcivescovile di Reims, per coronare con un ministero pastorale l’apostolato intellettuale di cui i migliori spiriti del suo tempo avevano beneficiato.

            Bruno, infatti, nato a Colonia intorno al 1030, era emigrato dalla sua giovinezza a Reims, allora una delle facoltà più celebri dell’Occidente, per passare una buona parte della sua vita all’ombra della sua università, a turno allievo e insegnante, contando tra i suoi discepoli molti tra i più grandi luminari del suo secolo: Anselmo di Laon, che diventerà maestro di Abelardo, Ugo, futuro vescovo di Grenoble a cui dovrà il deserto di Chartreuse, e Eudes de Chatillon, più tardi papa con il nome di Urbano II, che invano tenterà di associarlo più strettamente al suo ministero pontificio.

            L’opzione definitiva di Bruno per una vita solitaria giungerà alla fine di una crisi che scosse la Chiesa di Reims, e oppose violentemente Bruno all’arcivescovo simoniaco Manasse, che lo spogliò delle sue cariche e lo esiliò dalla diocesi. La crisi in questione fece senza dubbio maturare un’attrattiva, che, come peraltro sappiamo, agitava già da tempo il suo cuore. In una sua lettera  pervenutaci, che invia dalla Calabria, dove Urbano II lo lasciò ritirare, a Rodolfo il Verde, antico condiscepolo divenuto prevosto di Reims, egli fa menzione di una risoluzione presa a tre, Bruno, Rodolfo il Verde e Folco il Monocolo, a seguito di un dialogo notturno nel giardino di un certo Adamo presso il quale all’epoca Bruno alloggiava. La scena dovette aver luogo intorno all’anno 1080. Bruno dunque era già sul punto di partire in solitudine, quando alcune circostanze impreviste l’obbligarono a rinviare un po’ più in là l’esecuzione del suo disegno. Ahimè! Il ritardo fu fatale per i suoi due compagni, come egli stesso dice: «l’animo si raffreddò e il fervore svanì» (Lettera a Rodolfo il Verde 13).

            Sarà appunto un po’ più tardi, quando si avvicinerà alla cinquantina e dopo aver rifiutato una promozione episcopale che il buon popolo remese reclamava, che egli potrà realizzare il suo disegno, ancora una volta accompagnato da due amici. Senza dubbio Bruno intuitivamente aveva già una certa idea della vita solitaria che voleva abbracciare. Nuove comunità andavano allora fiorendo un po’ dappertutto, rappresentando tutta la gamma possibile di esperienze monastiche. Egli non si orienta verso una forma di eremitismo integrale: Bruno durante la sua vita non sarà mai senza compagni. Si rivolge dunque ad un abate e a una comunità che godevano già di una fama di riformatori: San Roberto di Molesmes gli consegna l’abito monastico. Ma i monaci di Molesmes sono degli stretti cenobiti che seguono la regola di San Benedetto. Alcuni di loro saranno più tardi all’origine della fondazione di Cîteaux e dei cistercensi, forma di vita anch’essa cenobitica. Bruno cerca allora qualcos’altro, e Roberto di Molesmes gli permette di ritirarsi nelle vicinanze, a Sèche-Fontaine, senza dubbio con l’intenzione di costruire degli eremi: primo abbozzo di ciò che sarà il deserto certosino. Ma questo di fatto non corrisponde ancora all’intuizione di Bruno. Può darsi che i cenobiti di Molesmes  fossero troppo vicini e non rispettassero sufficientemente la sua solitudine, o che egli cercasse un deserto più aspro di quello che potevano offrirgli i dolci pendii boscosi delle colline ai confini della Champagne? In ogni caso, Bruno e i suoi compagni spostano l’attenzione sul Delfinato, dove uno dei suoi antichi discepoli occupava da poco il seggio episcopale di Grenoble. È lo stesso Ugo che, il 24 giugno dell’anno 1084, festa di San Giovanni Battista, li condurrà in fondo ad una valle incastonata tra i pendii rocciosi della Chartreuse(5), dove costruiranno le prime capanne in legno, ancora più lontano e più in alto del luogo su cui si erge oggi l’insieme delle costruzioni della Grande Chartreuse, e da dove saranno cacciati qualche decennio dopo da una valanga, che causò la morte di molti fratelli(6).

            Bruno ci riporta pochi elementi espliciti del modo in cui fu concretamente organizzata questa vita in solitudine, ma ci è permesso di pensare che l’unione armoniosa di una vita solitaria molto stretta con alcuni elementi di vita comune era già considerata e rappresentava esattamente il progetto personale di Bruno. Quando, qualche decennio più tardi, Guigo metterà per iscritto le usanze della comunità, vorrà tramandare, dice, «ciò che noi abbiamo costume di fare», consuetudini che risalgono senza alcun dubbio a Bruno in persona.

            Da dove trae Bruno un tale progetto? Il monachesimo latino del tempo non si ispira altro che alla Regola di San Benedetto, divenuta praticamente, da un paio di secoli, l’unica regola monastica. Ora questa regola è strettamente cenobitica, anche se Benedetto non ignora la vita eremitica, avendola praticata egli stesso prima di fondare dei monasteri, e lascia anche una porta discretamente aperta per quei suoi monaci che vorranno intraprenderla, ma solo dopo un lungo addestramento nel cammino cenobitico. San Benedetto non sembra conoscere la vita eremitica che sotto la sua forma estrema, quella cioè di un solitario abbandonato a Dio e a se stesso, totalmente solo in un ritiro assoluto.

            Nel rigoglio di fondazioni e di ‘nuove comunità‘, che caratterizzò la vita monastica dell’XI secolo, la componente specificamente eremitica aveva ripreso i suoi diritti in svariate forme. La maggior parte di queste fondazioni ritrovarono il cammino di una vera solitudine materiale, lontano da centri abitati. Alcuni eremiti si erano anche raggruppati in piccole colonie, dove il rigore della solitudine era temperato dalla presenza di fratelli animati da uno stesso spirito di ricerca. Diversi decenni prima di Bruno, San Romualdo aveva cosparso l’Italia di diverse laure di questo tipo, di cui la più celebre, quella di Camaldoli, presso Arezzo, ha dato il suo nome ad una famiglia monastica che si è perpetuata fino ad oggi. Al di là di San Benedetto il monachesimo occidentale andava così riallacciandosi con delle forme ereditate dall’Oriente, che considerava sempre come la sua culla.

            Di questa ascendenza, Guigo, il legislatore della Chartreuse, sembra essere ben consapevole. Redigendo la raccolta di consuetudini che ivi si praticano, egli fa esplicito riferimento, a fianco a San Benedetto, agli antichi Padri d’Egitto e di Palestina: Paolo (di Tebe), Antonio e Ilarione. Ancora più sorprendente, nel tempo in cui i primi certosini sciamarono verso il nord, la testimonianza di un anziano benedettino, divenuto cistercense a tarda età, Guglielmo di Saint-Thierry, che si rivolge ai fratelli della recente fondazione di Mont-Dieu, nelle Ardenne francesi, come a coloro che «portarono nelle tenebre dell’Occidente e nei freddi delle Gallie la luce dell’Oriente (Orientale lumen) e l’antico fervore dell’Egitto, cioè l’esempio della vita solitaria e l’immagine della vita celeste» (Lettera d’oro 1,1).

            La permanenza di Bruno tra i fratelli di Chartreuse non dura che pochi anni, fino a quando Urbano II, suo antico allievo divenuto papa, lo reclama al suo fianco per la preparazione di alcuni sinodi o concili. Bruno ottempera alla domanda, ma non si sentirà mai a suo agio presso la Curia pontificia. Ad alcuni fratelli che lo hanno accompagnato, il papa, conoscendo la loro opzione in favore della solitudine, offre quella molto relativa delle Terme di Diocleziano, allora in rovina. Declinando infine l’offerta, fattagli dal papa, del seggio episcopale di Reggio Calabria Bruno ottiene da lui l’autorizzazione per ritirarsi in un altro eremitaggio, dove finirà i suoi giorni, circondato dall’affetto dei suoi fratelli di Calabria, come di Chartreuse, che non cesseranno mai di considerarlo l’iniziatore del loro progetto e loro autentico padre 

            Di ciò che pensa Bruno stesso del tipo di vita monastica che egli propaga dovunque passa, possiamo trovarne un’eco in due lettere di sua mano che la tradizione ha conservato. La prima, già citata, è indirizzata a Rodolfo il Verde, allora prevosto del capitolo della cattedrale di Reims, per ricordargli il voto che un tempo avevano pronunciato insieme; la seconda è inviata ai suoi fratelli rimasti in Chartreuse, per incoraggiarli a perseverare nella loro vocazione. Per afferrare meglio l’intuizione fondamentale dell’eremitismo certosino, a queste due lettere di Bruno possiamo aggiungere una terza, quella di Guigo che celebra le lodi della vita solitaria, in favore di un amico, rimasto anonimo, che egli cerca di convincere a raggiungerlo.

            Per descrivere la vita certosina, Bruno utilizza a due riprese l’immagine della veglia: questa vita si riassume in delle excubiæ divinæ, in una veglia divina. Così facendo, Bruno estende al suo insieme la pratica della preghiera notturna, appresa sull’esempio di Gesù, che è sempre stata un elemento importante e particolarmente caro al cuore del solitario. Essa corrisponde ad un desiderio formulato da Gesù espressamente in un momento cruciale della sua esistenza: «Non siete capaci di vegliare un’ora con me?». Bruno precisa anche l’oggetto della veglia: il certosino, con i suoi fratelli, monta «una guardia santa e perseverante nell’attesa del ritorno del proprio maestro, per aprirgli quando arriverà». L’allusione evangelica è trasparente. Essa situa immediatamente il posto particolare del solitario lungo il cammino della Chiesa intera. Diremmo oggi, non senza ragione, che egli si trova nel cuore di questo cammino. Ma l’immagine escatologica usata da Bruno permette di precisare meglio: il solitario si trova anche davanti in questo cammino che va svolgendosi attraverso i tempi, si trova, per così dire, in testa, essendo investito della missione particolare di «affrettare» misteriosamente «la venuta del Giorno di Dio» (2Pt 3,12).

            Un’altra immagine, anche questa usata a due riprese, implica una medesima realtà spirituale: l’immagine del porto. Il solitario, nel prendere le distanze dal mondo, è già giunto in porto. Egli è «scampato ai flutti agitati di questo mondo, dove i pericoli e i naufragi si moltiplicano», e si è stabilito «nel quieto riposo e nella sicurezza di un porto riparato» (2,2). Ognuna di queste espressioni possiede un significato ben preciso – oggi diremmo ‘tecnico‘ – nel vocabolario monastico dell’epoca. Ne rileviamo due.

            Questo porto è dapprima presentato come tutus et quietus. I termini che derivano dalla radice quies (quiescere, quietus) designano delle realtà che sono quelle proprie di ciò che chiamiamo oggi la vita strettamente contemplativa. Ci torneremo più in là, perché il termine quies-riposo designa uno degli elementi essenziali dell’esperienza certosina. Questo riposo, o ‘quiete‘, è innanzitutto attribuito al luogo dove il deserto certosino è stabilito. Quando Bruno ne parla, non è l’austera maestà delle Alpi del Delfinato che egli ha davanti, per la quale la sensibilità medioevale provava poca attrattiva, ma piuttosto la deliziosa armonia di pianori e di dolci colline trovate in Calabria. Bruno si diletta a descrivere il suo deserto: «Come parlare adeguatamente della bellezza del luogo, della mitezza e salubrità del clima o della pianura ampia e gradevole che si estende lontano tra i monti, con i suoi verdi prati e i pascoli coperti di fiori?». E aggiunge: «Chi potrebbe descrivere l’aspetto delle colline, che dolcemente si elevano all’intorno e il segreto delle valli ombrose con l’incanto dei numerosi fiumi, dei ruscelli e delle fonti? Né mancano giardini irrigati e frutteti dagli alberi svariati» (1,4). Questa quiete dei dintorni è là per favorire la quiete interiore, nella quale Dio si rivela e dove si incontra il Cristo. Guigo poi ha condensato questo orientamento del cuore del solitario in una formula ben coniata, insieme semplice e forte: il certosino deve essere «Cristo quietus»: la sua quiete è interamente ordinata al Cristo.

            L’altro termine ‘tecnico‘ del vocabolario contemplativo dell’epoca, che ritroviamo sotto la sua penna, è quello della statio, il restare ritti in piedi, che fa allusione alla stabilità in un luogo, che si lascerà il meno possibile, e all’antico atteggiamento riservato alla preghiera, che appunto si faceva rimanendo in piedi. Se la quiete è liberata e salvaguardata con tanta cura, è dunque certamente in vista della preghiera. Questo termine d’altra parte si trova vicino e si avvicenda con un altro, che solo in apparenza è il suo contrario: la sessio, il restare seduti solitari nella cella. Guigo lo usa servendosi molto chiaramente della citazione di Lam 3,28, che in ogni tempo era stata riservata alla vita solitaria e silenziosa.

            Il termine quies-riposo ne richiama poi un altro, anche questo frequente: questa quiete assicura un sanctum otium, un santo ozio, anche questo interamente disponibile per Dio e per la preghiera. Bruno prende da Sant’Agostino un gioco di parole particolarmente felice, che libera in un sol colpo una simile espressione da ogni possibile ambiguità: si tratta di un otium negotiosum, un ozio attivo; che pur essendo tale, nondimeno dovrà restare una quieta actio, una vita attiva nella pace. Già Agostino se l’era presa con coloro che, nel suo tempo, lo invidiavano per il santo ozio di cui disponeva: «Che nessuno – scrisse – invidi il mio ozio, ‘quia meum otium magnum habet negotium‘, perché il mio ozio cela un’intensa attività» (Lettere 213,6).

            Per il solitario non si tratta tanto di un’attività manuale o pastorale, quanto di quell’opera interiore che egli privilegia rispetto a tutte le altre. Questa culmina nella preghiera, ma è nutrita dall’insieme delle opere monastiche, tra le quali l’assidua frequentazione della Parola di Dio occupa il primo posto, facilitata da un’organizzazione della giornata dove ciascuna opera è man mano considerata, giungendo come sollievo di quella precedente. La vita certosina, scrive Guigo, è una «vita povera e solitaria, (…) perseverante nelle avversità, (…) modesta negli eventi favorevoli. sobria nel vitto, semplice nel vestire, pudica nelle parole, casta nel comportamento. Può essere ambita al di sopra di tutto, poiché non è assolutamente ambiziosa, (…) Per la sua consueta fedeltà alla croce si applica con costanza ai digiuni, acconsente ai cibi nella misura del bisogno di questo corpo e regola entrambe le cose con la più grande misura, (…) si applica alle lettere, ma soprattutto agli scritti compresi nel canone e a quelli monastici, nei quali coglie più il midollo dei significati che la schiuma delle parole, (…) essa moltiplica a tal punto i suoi doveri che avviene più spesso che le manchi un intervallo di tempo piuttosto che l’occupazione di qualche impegno. E si affligge più spesso per la mancanza di tempo che per il fastidio del lavoro». E ancora Guigo nel terminare questo lungo elenco – che abbiamo d’altronde dovuto accorciare – riprende il gioco di parole di Agostino: «sic est continua in otio, quod numquam est otiosa», la nostra vita persevera nell’ozio pur non essendo mai oziosa (3,4).

            Questa intensa attività si svolge comunque sempre nella solitudine. Essa non implica né un’attività intellettuale rivolta all’esterno, che Bruno ha lasciato consapevolmente, né una responsabilità pastorale nella Chiesa, che Bruno ha voluto fuggire o che ricuserà, la stessa da cui prova a distogliere il suo amico Rodolfo il Verde, cancelliere dell’arcivescovado di Reims. Bruno non trova nessuno scrupolo nel farlo. Sembra così identificare l’attività pastorale con le molte preoccupazioni che essa determina pressoché necessariamente, e con le ambizioni mondane che essa rischia di nutrire segretamente. Ammette che essa è senza dubbio più feconda, come Lia che dà più figli a Giacobbe, rispetto a Rachele, che era tuttavia la più bella e la più socievole. Bruno prende questa interpretazione allegorica da Gregorio Magno, agli occhi del quale una tappa di vita contemplativa più stretta succede legittimamente a un tempo di servizio apostolico (Regola pastorale 1,11). «Meno numerosi, infatti, sono i figli della contemplazione rispetto a quelli dell’azione, – scrive – ma Giuseppe e Beniamino sono amati dal padre più di tutti gli altri fratelli». In un tale contesto, un’allusione discreta al passo evangelico, emblematico agli occhi dei Padri per il valore della vita contemplativa, non sarebbe fuori luogo; ed è così che infatti Bruno conclude: «Questa è la parte migliore che Maria ha scelto e che non le sarà tolta».

            D’altronde, per il fondatore della Chartreuse, abbandonare una sede universitaria, dove egli occupava il posto d’insegnante, significa raggiungere un’altra sede, dove d’ora innanzi egli si fa discepolo, ma di un insegnamento che supera tutto ciò che il sapere umano può dispensare. È senza dubbio alla sua previa carriera universitaria, abbandonata per amore di Cristo, che Bruno pensa, quando presenta la vita certosina con i tratti di una scuola alternativa, dove colui che vuole divenire discepolo del Cristo viene ad assidersi per apprendere dallo Spirito Santo in persona i segreti di una filosofia totalmente divina. Raggiunge così un tema ricorrente nella grande Tradizione, che amava vedere in una vita interamente consacrata alla ricerca di Dio la forma più eccellente della ‘vera filosofia‘.«Chi non vede quanto sia bello, utile e gioioso, scrive al suo antico condiscepolo di Reims, rimanere alla scuola del Cristo sotto la guida dello Spirito Santo, per apprendervi la divina filosofia, che sola può donare la vera beatitudine?» (1,10).

            Bruno solleva un angolo del velo che copre il metodo pedagogico che lo Spirito Santo usa, in un passo della sua lettera ai suoi fratelli di Chartreuse, dove egli si rivolge più particolarmente al gruppo dei fratelli conversi della comunità, per molto tempo costituito da laici analfabeti, e dunque privati abitualmente della lettura delle Scritture, che Bruno peraltro ha in grande considerazione. Ma ciò non ha importanza! Anche se questi fratelli ignorano le lettere, ricevono un insegnamento interiore, che è loro dispensato direttamente dallo Spirito, in vista di una saggezza alla quale i più sapienti monaci del chiostro non avranno niente da invidiare. Vale la pena citare questo testo, che forse è l’unico dell’epoca dedicato allo stato dei fratelli conversi: «Quanto a voi, miei carissimi fratelli laici, (…) mi rallegro anch’io, poiché, sebbene siate illetterati, Dio onnipotente scrive con il suo dito nei vostri cuori non solo l’amore, ma anche la conoscenza della sua santa legge. Con le opere, infatti, dimostrate quel che amate e conoscete. Poiché praticate con la massima cura e con il massimo zelo la vera obbedienza, che è l’adempimento dei comandamenti di Dio, la chiave e il sigillo di tutta l’osservanza spirituale; essa non può mai esistere senza una profonda umiltà e una grande pazienza, ed è sempre accompagnata da una casto amore per il Signore e da una carità autentica. È perciò evidente che voi raccogliete con saggezza il frutto soavissimo e vivificante delle divine Scritture» (2,3). Questo testo è di notevole valore: in una vita contemplativa correttamente condotta, l’insegnamento interiore dello Spirito Santo può sostituirsi a quello attinto dalla lettura, anche dalla lectio delle Scritture.

             Ma questo non possono comprenderlo e parlarne se non coloro che sono stati effettivamente chiamati, e hanno preso su di sé il rischio di pagarne il prezzo. Bruno, infatti, è perfettamente cosciente del fatto che non tutti i battezzati sono invitati a seguire Cristo in un deserto così rigoroso ed escludente ogni distrazione. Non si fa eremita chiunque lo voglia. Se egli si permette di insistere presso Rodolfo il Verde, è perché crede che si sia legato con il debito che un voto gli ha fatto contrarre. Ma quando si rivolge ai propri fratelli, Bruno sottolinea piuttosto il carattere eccezionale della loro vocazione, e nello stesso tempo la grazia insigne che ciò rappresenta da parte di Dio a loro riguardo, e che dovrà essere un motivo di gioia e di ringraziamento incessanti. Ecco come si rivolge a loro in un passo dove forse traspare il ricordo di un certo numero di aspiranti che, ieri come oggi, hanno dovuto rinunciare al termine di un pur serio periodo di prova: «Rallegratevi dunque, fratelli miei carissimi, della vostra felice sorte e dell’abbondanza di grazie che Dio riversa in voi. (…) Rallegratevi di essere giunti alla quiete e al sicuro riposo del porto più riparato, al quale molti desiderano arrivare, molti anche con un certo sforzo vi tendono, ma non riescono a raggiungerlo. Molti poi, dopo esservi giunti, ne furono respinti perché a nessuno di loro era stato concesso dall’alto. Perciò, fratelli miei, tenete per certo e provato che chiunque abbia gioito di un bene così desiderabile, se per qualsiasi motivo lo viene a perdere, ne soffrirà continuamente» (2,2).

            Le meraviglie che Dio è solito operare nel deserto, oltre le prove e le tentazioni sulle quali Bruno si sofferma poco, egli le richiama con queste parole «quanta utilità e gioia divina la solitudine e il silenzio del deserto arrecano a coloro che li amano», e le descrive subito dopo in un passo famoso che ormai fa parte di tutte le antologie dedicate alla vita solitaria: «Qui (nel deserto), infatti, gli uomini coraggiosi possono rientrare in se stessi quanto vogliono e dimorare nel loro cuore, coltivare intensamente i germi delle virtù e gustare con gioia i frutti del paradiso. Qui si acquista quell’occhio, il cui sereno sguardo ferisce d’amore lo sposo e grazie alla cui purezza e luminosità si vede Dio. Qui ci si applica assiduamente ad un ozio attivo e si riposa in una quieta azione. Qui, in cambio del faticoso combattimento, Dio dona ai suoi atleti la desiderata ricompensa, cioè la pace che il mondo ignora e la gioia dello Spirito Santo» (1,6).

             Testo denso, nel quale le immagini e le allusioni bibliche o tradizionali si accavallano una sull’altra. Vi notiamo una discreta allusione a ciò che il combattimento della solitudine può avere di severo: la fatica del combattimento richiede ‘uomini coraggiosi‘ e ‘atleti‘. ‘Rientrare in se stessi‘ o ‘dimorare con se stessi‘, quest’ultima espressione ancora presa da San Gregorio che l’applica a San Benedetto, designa il raccoglimento interiore che permette al solitario di vigilare sui suoi desideri e di orientarli continuamente e tranquillamente a Dio; precisamente ciò che costituisce l’ascesi o lo sforzo del tutto particolare di colui che vive solo per Dio. Gregorio lo precisa nel modo seguente: «In questa solitudine, il venerabile  Benedetto dimorava con se stesso, nella misura in cui egli si chiudeva all’interno del chiostro della sua mente», ‘in quantum se intra cogitationis claustra custodivit’(Dialoghi IV, 2, 3). Il raccoglimento interiore permette di purificare il cuore che è innamorato del suo Dio, e il cui sguardo ferisce il divino sposo, che a sua volta è disposto a fargli provare in risposta il suo amore, istillando nella sua anima i frutti del suo Spirito: la pace e la gioia. Non si racconta forse di Bruno che veniva spesso sorpreso a camminare in mezzo alla natura, ripetendo ciò che era divenuto in lui il grido del cuore, e senza dubbio la sua giaculatoria preferita: ‘O bonitas!


(1) I padri certosini, Una parola dal silenzio, Magnano, 1997, pagg. 72-74 ; cf. anche Id. Fratelli nel deserto, Magnano, 2000, pagg. 299-300.

(2) Oggi Santuario di S. Maria del Bosco, presso la Certosa di Serra San Bruno.

(3) Attorno al 1122, i resti mortali di Bruno furono trasferiti all’interno della chiesa di S. Maria. Dapprima poste sotto la pavimentazione, le reliquie furono poi traslate nel santuario della chiesa della certosa, dove ancora oggi si trovano.

(4) Citiamo Bernard Bligny, che nella sua opera “Saint Bruno le premier chartreux”, ci fornisce uno sguardo pertinente sulle circostanze della canonizzazione di Bruno: «Ci si meraviglierà, senza dubbio, che la Chiesa abbia atteso così tanto per elevarlo agli onori degli altari, quando altri certosini, come Antelmo di Belley e Ugo di Lincoln, lo siano stati prima di lui. Una prima ragione di ciò è legata al fatto che nel secolo XII, e ancora nel XIII, i papi hanno canonizzato soprattutto dei vescovi, e tra questi alcuni monaci-vescovi, che San Bruno rifiutò di essere; perché si trattava in quel momento di esaltare i meriti di un episcopato riabilitato dopo la crisi che aveva conosciuto tra il 950 e il 1050 circa, e da cui si era lentamente ripreso. La seconda ragione la si può trovare nel fatto che, per essersi sottratti al mondo finanche nella sepoltura, i certosini non avevano da offrire che una muta testimonianza, la cui traccia non era facilmente sfruttabile dall’agiografia, non meno, nel caso di Bruno, di quella della sua attività di scolarca. Ve ne poi una terza, che è legata al loro proprio modo di fare: allergici infatti ad ogni pubblicità, ostili agli abusi causati dallo sviluppo del culto popolare dei santi, essi non ambivano che ad una gloria, quella che viene dall’Alto, ‘in compagnia dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli, dei martiri, dei confessori e delle vergini, fiori del Paradiso’; e a questa visione, in cui il certosino Adam Scot anticipa Fra Angelico, bisogna aggiungere il loro scarso interesse per l’involucro carnale rispetto all’anima immortale, e soprattutto una concezione di miracolo estranea al senso comune, il quale non prende in considerazione se non il prodigio. Già nella Vita di Sant’Ugo vescovo di Grenoble (composta tra il 1134 e il 1136), ai § 23, 47 e 48, Guigo non poteva essere più chiaro nell’esaltare una ‘santità di tutti i giorni’, che consiste per il cristiano nel ‘vedere Dio’ nel proprio cuore. Ora, allo stesso titolo del martirio, il miracolo sensibile, evidente, apriva la porta della canonizzazione, e San Bruno non ha né brillato nel secondo, né sofferto il primo».

(5) Ugo di Châteauneuf, vescovo di Grenoble da appena tre anni, era molto pensieroso per un sogno: «egli aveva visto in sogno, scrive nel 1134 Guigo, suo confidente e biografo, Dio che costruiva per la sua gloria una dimora nella solitudine della Chartreuse e sette stelle gliene mostravano il sentiero» (Vita di Sant’Ugo (+1132), cap. 3, n. II, PL 153). Il prelato si domandava se si trattava di un sogno senza importanza, o se l’Altissimo aveva voluto suggerirgli qualche santa impresa, quando furono introdotti dei visitatori. Gli arrivati, in numero di sette, desideravano votarsi pienamente alla sola contemplazione delle perfezioni divine, e cercavano un luogo deserto dove potersi consacrare a questa vocazione lontano dal mondo. Quando Bruno, il portavoce del piccolo gruppo, ebbe formulato la sua richiesta, Ugo comprese che Dio gli aveva fatto conoscere la sua volontà. In un giorno di giugno del 1084, nella festa di S. Giovanni Battista, egli decise dunque di condurre il piccolo gruppo verso il punto più deserto della sua diocesi, il Massiccio di Chartreuse: un sito che più tardi darà loro il nome di ‘certosini’. (estratto da: l’Ordre des chartreux, par un chartreux).

(6) Questo disastro avvenne di sabato, il 30 gennaio 1132, dopo un mezzo secolo di presenza certosina sul sito primitivo.