Libro 3 - La comunità
Dopo
aver trattato di quanto riguarda la vita del monaco in ascolto di Dio
nella cella o durante il lavoro, con l’aiuto del Signore ci accingiamo
ora a trattare della comunità. La grazia dello Spirito Santo raduna,
infatti, gli amanti della solitudine così da farne una comunione
nell'amore, a immagine della Chiesa, una e diffusa in molti luoghi. Il
nostro Padre San Bruno, entrando nel deserto con sei compagni, seguiva le
orme di quegli antichi monaci che si erano totalmente consacrati al
silenzio e alla povertà di spirito. Fu, tuttavia, grazia propria dei
nostri primi padri l’aver introdotto in quella vita una liturgia
quotidiana che, pur rispettando l'austerità della vocazione eremitica,
associava in maniera più espressiva detta vita all'inno di lode che
Cristo, Sommo Sacerdote, ha affidato alla sua Chiesa. Noi custodiamo come
conforme alla vita contemplativa e solitaria questa liturgia che ci è
propria. Come
nelle sinassi degli antichi monaci, i momenti più importanti della nostra
liturgia sono le veglie della notte, a cui seguono le Lodi del mattino,
l’Eucaristia celebrata comunitariamente e i Vespri. Per tali Uffici ci
raduniamo in chiesa. Quando
ci raduniamo per l’Eucaristia l'unità della famiglia certosina trova il
suo compimento nel Cristo presente ed orante. Inoltre
i monaci sacerdoti, uniti alla Chiesa, celebrano l’Eucaristia in
solitudine; allora l’umile offerta della loro vita nel deserto è
assunta in Cristo a gloria di Dio Padre. I
giorni,
invece,
in
cui
maggiormente
prevale
la
vita
di
comunità i
monaci possono concelebrare, riuniti in un unico sacerdozio. La
preghiera notturna è quella in cui, perseverando in una veglia santa,
attendiamo il ritorno del Signore, per aprirgli subito, appena bussa. I
Vespri vengono celebrati quando il giorno al suo tramonto invita l'anima
al sabato spirituale. Abitualmente
recitiamo in cella le altre Ore canoniche della liturgia. Le domeniche e
le solennità cantiamo in coro Terza, Sesta e Nona. La
liturgia celebrata nel segreto della cella si accorda alla vita solitaria,
la quale è libertà dell’anima, così da armonizzarsi più
profondamente con le aspirazioni del nostro cuore, pur restando sempre un
atto della nostra vita comune. Al suono della campana tutti, pregando
nello stesso momento, fanno dell'intero monastero una sola lode alla
gloria di Dio. Celebrando
il divino Ufficio i monaci diventano voce e cuore della Chiesa, che per
mezzo di essi presenta a Dio Padre, nel Cristo, un culto di adorazione, di
lode, di supplica e chiede umilmente perdono per i peccati. Di certo i
monaci adempiono questa funzione così importante con tutta la loro vita,
ma in maniera più esplicita e ufficiale mediante la sacra liturgia. Poiché
compito del monaco è l'assidua meditazione delle Scritture sante finché
non divengano come parte di lui stesso, quando nella liturgia la Chiesa ce
le propone noi le riceviamo come pane di Cristo. La
liturgia conventuale è sempre cantata. Parte antica e stabile del
patrimonio dell'Ordine è il nostro canto gregoriano; noi sappiamo che
esso favorisce l’interiorità e la sobrietà spirituale. I
monaci del chiostro sono tenuti a celebrare l’Ufficio divino come è
descritto nei nostri libri liturgici. La partecipazione dei monaci laici
alla sacra liturgia può avvenire in vari modi, altrove descritti. Essi
comunque esprimono la preghiera pubblica della Chiesa. Oltre
l'Ufficio divino i nostri padri ci hanno trasmesso l'Ufficio della Beata
Vergine Maria, ogni Ora del quale precede ordinariamente l'Ora
corrispondente dell'Ufficio divino. Con tale preghiera si celebra la
perenne novità del mistero per cui la Beata Vergine genera spiritualmente
il Cristo nei nostri cuori. Avendoci
il Signore chiamati a rappresentare al suo cospetto ogni creatura, è
nostro dovere intercedere per tutti: per i nostri fratelli, i parenti, i
benefattori e per tutti i vivi e i defunti. Celebriamo
frequentemente la liturgia della riconciliazione, grazie alla quale la
Pasqua perenne del Signore rinnova noi, peccatori in cerca del suo volto.
La nostra vita spirituale, infatti, dipende dalla pratica personale,
assidua e cosciente del sacramento della Penitenza. Poiché la nostra vocazione è di stare incessantemente desti alla presenza di Dio, tutta la nostra vita tende a trasformarsi in un'unica liturgia, che diviene più esplicita in certi momenti, sia che preghiamo ufficialmente in nome della Chiesa, sia che seguiamo l'inclinazione del nostro cuore. Ma tale diversità non è causa di divisione, poiché è sempre il medesimo Signore che esercita in noi il suo sacerdozio, pregando il Padre nell'unico Spirito.
Quando
in cella o nelle obbedienze conduciamo vita solitaria, il cuore s'infiamma
e si alimenta al fuoco della carità divina, che è il vincolo di
perfezione e ci fa membra di un solo corpo. Radunandoci nei momenti
stabiliti, possiamo manifestare nella gioia quest'amore reciproco con le
parole e le azioni, come anche rinunciando a noi stessi per i fratelli. La
sacra liturgia è la parte più nobile della vita di comunità poiché
crea tra di noi la comunione più profonda. Ciò avviene quando, riuniti
quotidianamente, vi partecipiamo in modo tale da poterci presentare a Dio
con un cuor solo. Il
capitolo della casa è un luogo di non poca importanza, dove ognuno di
noi, ricevuto una volta come il più umile servo di tutti, vi riconosce
davanti ai fratelli le colpe commesse in seguito; dove ascoltiamo una
lettura sacra e deliberiamo su quanto riguarda il bene comune. In
alcune solennità ci riuniamo tutti in capitolo per ascoltare il sermone
fatto dal priore o da un altro da lui incaricato. La
domenica e le solennità, eccetto Natale, Pasqua, Pentecoste e tutte le
solennità che in Quaresima cadono durante la settimana, ci raduniamo in
capitolo dopo Nona per ascoltare la lettura del Vangelo o degli Statuti.
Ogni due settimane, o una volta al mese, secondo la consuetudine delle
case, nel capitolo stesso riconosciamo pubblicamente le colpe commesse.
Ciascuno può accusarsi delle mancanze commesse contro i fratelli, gli
Statuti o anche contro l’insieme dei doveri nel nostro servizio di Dio.
E poiché la solitudine del cuore è custodita soltanto dal muro del
silenzio, colui che ha infranto il silenzio si accusi sempre di tale
mancanza e faccia qualche penitenza pubblica secondo l'uso. Dopo
l’accusa il priore potrà fare opportune ammonizioni. I
monaci su invito del priore si radunano in capitolo ogniqualvolta ci sia
da prendere una deliberazione su qualche affare o il priore chieda
consiglio alla comunità. Facciamo
pranzo comune in refettorio le domeniche e le solennità, giorni in cui ci
raduniamo più spesso e viene dato più spazio al conforto della vita di
famiglia. Il refettorio, nel quale entriamo dopo l’Ufficio in chiesa, ci
ricorda la Cena resa sacra da Cristo; vi benedice la mensa il sacerdote
che ha celebrato la Messa conventuale, e mentre viene servito il cibo
corporale ci alimentiamo anche con una lettura spirituale. È
concesso ai padri un colloquio in comune dopo il capitolo di Nona; ai
fratelli invece, a giudizio del priore, in ogni solennità per chi lo
desidera. Una volta al mese tutti i fratelli hanno un colloquio; in tale
giorno, a giudizio del priore, i padri e i fratelli possono fare
ricreazione in comune, e ad essa possono essere chiamati anche i novizi e
i giovani professi. Mentre
facciamo ricreazione ricordiamo il consiglio dell'Apostolo: essere
lieti, avere gli stessi sentimenti, vivere in pace, affinché il Dio della
pace e dell'amore rimanga in noi. Dato che il colloquio riunisce
insieme tutta la comunità, evitiamo di ritirarci in disparte, e non
parliamo se non nel luogo dove tutti si riuniscono, salvo eventualmente lo
scambiarci qualche parola. Come
dice san Bruno, l'animo debole, quando è stanco a motivo di una regola
assai austera e per l’applicazione alle realtà spirituali, trova spesso
sollievo e riprende forza nel godere dell'amenità del deserto e della
bellezza della campagna. Per questo i padri hanno uno spaziamento alla
settimana, eccettuata la settimana santa; i fratelli uno al mese,
facoltativo per ciascuno, benché debbano parteciparvi tre o quattro volte
all'anno. In tale spaziamento i padri e i fratelli, a giudizio del priore,
possono andare insieme. I
nostri spaziamenti siano tali che favoriscano l’unione degli animi e il
loro progresso spirituale. Perciò tutti, andando per la stessa strada,
camminino insieme, di modo che ciascuno possa alternativamente parlare con
gli altri, tranne che per un motivo ragionevole non sembri meglio fare due
o tre gruppi. Se nell'uscire bisogna necessariamente passare per i paesi
vicini, si accontentino semplicemente di attraversarli, conservando ogni
modestia, e non entrino mai nelle case dei secolari. Non si intrattengano
in conversazione con gli estranei né distribuiscano loro alcuna cosa.
Durante gli spaziamenti non mangino e bevano solo l'acqua di fonte che
incontrano per via. Questi
colloqui sono stati istituiti per favorire la carità reciproca ed essere
di aiuto alla solitudine. Guardiamoci dalle chiacchiere eccessive, dal
chiasso e dal riso scomposto; siano i nostri discorsi religiosi, non vani
e neppure mondani; e si eviti con cura ogni specie di critica o di
maldicenza. Se non siamo d'accordo con un altro, sappiamolo ascoltare, e
cerchiamo di capire il suo modo di vedere, affinché in tutti divenga più
stretto il vincolo della carità. I padri che lo desiderano possono, una volta al mese, col consenso del priore, dedicarsi a qualche lavoro durante il tempo dello spaziamento, come si fa nelle opere comuni, ma con il permesso di parlare.
Ogni
casa dell’Ordine, in cui si trovano almeno sei professi idonei come
elettori, può eleggere il suo priore. L’elezione deve essere fatta
entro quaranta giorni; trascorso questo tempo, il Reverendo Padre o il
Capitolo Generale provvederanno alla nomina del nuovo priore. Il
priore, ad esempio di Cristo, sta in mezzo ai suoi fratelli come colui che
serve e li guida secondo lo spirito del Vangelo e la tradizione
dell'Ordine che egli stesso ha ricevuto. Si sforzi di giovare a tutti con
la parola e con la vita; tuttavia in modo particolare ai monaci del
chiostro, tra i quali è stato scelto, deve dare esempio di quiete, di
stabilità, di solitudine e di fedeltà alle altre osservanze proprie
della loro vita. Da
per tutto il seggio del priore e il suo abito non si distinguono per nulla
dagli altri per dignità o eleganza, né egli porta alcun segno atto a
farlo riconoscere come priore. Il
priore, essendo nel monastero il padre comune di tutti, deve manifestare
la medesima sollecitudine per i fratelli e per i padri, visitandoli
talvolta nelle celle e nelle obbedienze. Se qualcuno si reca nella sua
cella, lo riceva con tutta carità, e ascolti sempre ognuno volentieri.
Sia tale che i monaci, specialmente nell'ora della tribolazione, possano
ricorrere a lui come a un cuore di padre pieno di bontà, e anche, se
vogliono, aprirgli liberamente e spontaneamente il proprio animo. Non
giudicando dal punto di vista umano, egli si sforzi insieme con i suoi
monaci di ascoltare lo Spirito, nella comune ricerca della volontà di
Dio, che egli ha l’incarico di interpretare per i suoi fratelli. Il
priore non deve mitigare la disciplina regolare per farsi benvolere, perché
questo significherebbe non custodire ma perdere il gregge. Invece governi
i monaci come figli di Dio, promuovendo la loro volontaria sottomissione,
affinché nella solitudine si conformino più pienamente a Cristo
obbediente. A
loro volta i monaci amino in Cristo e rispettino il loro priore e sempre
gli siano umilmente obbedienti. Si affidino a colui che nel Signore si è
assunto la cura delle loro anime, gettando ogni sollecitudine in lui che
per la fede considerano far le veci di Cristo. Non siano saggi ai loro
propri occhi, appoggiandosi sulla propria prudenza, ma ascoltino gli
avvertimenti del loro padre, inclinando il proprio cuore alla verità. Il
priore non abbandoni a se stessi e all'arbitrio della propria volontà i
giovani quando cominciano a vivere tra i professi solenni, i conversi che
hanno appena fatto i voti solenni e i donati che non sono più sotto la
guida del maestro; l'esperienza insegna che specialmente in quegli anni la
nostra vocazione attraversa il momento cruciale e che da essi dipende
tutta la vita successiva. Ma, conversando con essi con semplicità in
privato, offra loro l'aiuto di un padre, anzi di un fratello. Eviti
inoltre, per quanto è possibile, di promuovere alle cariche, specialmente
a quella di procuratore, i monaci appena terminati gli studi. Il
priore curi che il capitolo dei fratelli sia tenuto regolarmente. Provveda
inoltre che una volta alla settimana si spieghi loro la dottrina cristiana
o gli Statuti. E dato che questo è un suo dovere grave vigili con cura
perché i fratelli ricevano una solida formazione e siano loro forniti
libri adatti a tale scopo. Sia
sollecito anche verso i malati, i tentati e gli afflitti, sapendo per
esperienza quanto talvolta possa divenire dura per noi la solitudine. Poiché
i libri sono il cibo perenne della nostra anima il priore li procuri
volentieri ai suoi monaci. Conviene che essi si nutrano principalmente
della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa e di autori monastici di
provato valore. Ma offra loro anche altri libri solidi, scelti con cura
secondo quanto è utile ad ognuno. Infatti nella solitudine ci applichiamo
alla lettura non per essere informati di qualsiasi nuova opinione, ma per
alimentare la fede in un clima di pace e favorire la preghiera. Il priore
può anche, se è necessario, proibire un dato libro ai suoi monaci. Il
priore deve vigilare sulle necessità e gli affari della sua casa e in
generale aver sollecitudine e previdenza di tutto; deve amministrare con
saggio discernimento i beni secondo Dio, la sua coscienza e lo spirito
dell'Ordine, curando con premura che non vi siano spese ingiustificate.
Per evitare tuttavia di essere talmente oppresso dalla cura degli affari
temporali e dalle preoccupazioni al punto da dedicarsi di meno alle cose
spirituali, cerchi di mettere a capo di ciascuna obbedienza ufficiali che
meritino tutta la sua fiducia. Negli
affari di maggior importanza che riguardano le obbedienze degli ufficiali,
il priore si sforzi sempre di deliberare di comune accordo dopo averli
ascoltati; gli ufficiali da parte loro si sottomettano sempre con animo
filiale alle sue disposizioni. Il priore impari a conoscere con affetto
paterno gli ufficiali e le loro difficoltà, li aiuti, sostenga davanti a
tutti la loro autorità, e, se è necessario, li riprenda
caritatevolmente. Si comporti in modo da non sembrare solo sollecito
dell'ordine esterno, ma da manifestare a tutti la carità di Cristo,
obbedendo egli stesso allo Spirito. Infatti la pace e la concordia della
casa dipendono in gran parte dal pieno accordo e dall’unanimità di
parere degli ufficiali con il priore. Il
priore non si occupa personalmente degli affari che possono essere
compiuti da qualcun altro. Dimori in casa con coloro dai quali è stato
scelto e non esca se non per una vera necessità. Dall'inizio
dell'Avvento, però, fino al primo giorno dopo l'Epifania, e dalla
Quinquagesima fino all'ottava di Pasqua compresa, ancora più grande
dovrebbe essere la necessità per giustificare una sua uscita, perché
possa dedicarsi più intensamente al proprio raccoglimento e alla cura del
suo gregge. Il priore, il cui ufficio esige non poca abnegazione, applichi a sé stesso ciò che dice Guigo: Non devi cercare che i tuoi figli, al cui servizio il Signore ti ha assegnato, facciano ciò che vuoi tu, ma ciò che a loro giova. Devi piegare te al loro vantaggio, non piegare essi alla tua volontà, dato che ti sono stati affidati non per essere loro a capo, ma per loro giovamento. La
Scrittura ci insegna che il saggio
ascolta i consigli; perciò il priore non deve esitare a consultare la
comunità o i membri del suo consiglio, se gli sembra che possa giovare al
bene comune l’unire a sé i monaci nella ricerca della volontà di Dio.
Ciò sembra opportuno in modo speciale quando si tratta di cose che
riguardano la responsabilità o l'utilità comuni. Il
priore ha un consiglio composto dal vicario, dal procuratore e da almeno
due monaci, dei quali uno è designato dal priore e l'altro è eletto
dalla comunità. La designazione e l’elezione predette si rinnovino
almeno ogni quattro anni. Il
segreto del consiglio e del capitolo deve essere sempre osservato
inviolabilmente, dato che può talora onerare in modo grave la coscienza,
specialmente quando si tratta di casi che si riferiscono a persone. Il
priore si scelga come vicario uno dei suoi monaci nel quale possa riporre
piena fiducia e del cui consiglio possa giovarsi. In ogni momento, ma
soprattutto quando il priore è assente, il vicario deve poter essere con
l'esempio e la parola una guida luminosa per gli altri e mantenere tutti
nell'osservanza regolare e in una santa pace, e avere per tutti una
sollecitudine materna, ma soprattutto per i tentati, gli infermi e gli
afflitti. Dato
che il vicario rappresenta il priore ed è la seconda persona della casa,
da per tutto in comunità occupa il posto del più anziano a destra del
priore. Quando
il priore è assente o impedito, il vicario ne fa le veci in tutti gli
uffici liturgici, e si prende cura delle necessità dei monaci, secondo lo
spirito e l’intenzione del priore. I monaci, a loro volta, gli mostrino
il dovuto rispetto. A
capo dei fratelli della casa il priore pone uno dei monaci professi di
voti solenni come diligente procuratore: così infatti vogliamo che venga
chiamato. Benché sia costretto a preoccuparsi e ad agitarsi per molte
cose, come Marta, di cui ha ricevuto l'incarico, tuttavia non deve del
tutto abbandonare il silenzio e la quiete della cella o sentirne
avversione; ma, piuttosto, per quanto glielo permettono gli affari della
casa, deve sempre ricorrere alla cella come a un porto sicurissimo e pieno
di pace, perché, leggendo, pregando e meditando, possa sia calmare le
agitazioni suscitategli nell'animo dalla cura e dall'amministrazione degli
affari, sia coltivare nelle profondità del suo cuore salutari pensieri da
comunicare con dolcezza e sapienza ai fratelli a lui affidati. Il
procuratore deve essere pieno di sollecitudine per le obbedienze dei
fratelli e per la loro salute fisica, occupandosi di loro con ogni carità.
Anzitutto sia ad essi di esempio, perché i fratelli sono attratti più
dai fatti che dalle parole e volentieri imitano il procuratore se egli
stesso è imitatore di Cristo. Soprattutto abbia cura che i fratelli non
siano sovraccarichi di lavoro; e, affinché possano dedicarsi
sufficientemente al raccoglimento in cella, il tempo dedicato ai lavori
non superi ordinariamente le sette ore. Ciascun
fratello sia responsabile della sua obbedienza e, a sua volta, il
procuratore sostenga l'autorità del fratello nei lavori che gli sono
stati assegnati. Riguardo ad essi il fratello deve consultare il
procuratore e sottomettersi alla sua volontà; tuttavia, compatibilmente
con le circostanze, il procuratore lasci che i fratelli agiscano con la
dovuta libertà per poter meglio adempiere le loro funzioni; e se vorrà
cambiare qualche cosa nelle loro obbedienze, non lo farà senza averli
prima consultati o almeno avvertiti. Il
procuratore deve essere pieno di sollecitudine verso gli ospiti, andando
loro incontro per primo all'arrivo e visitandoli. Quando
il procuratore esce di carica lascia ogni preoccupazione e anche ogni cosa
superflua, per seguire Cristo nudo nel deserto.
L'infermità
o la vecchiaia ci invitano ad un nuovo atto di fede nel Padre che con tali
prove ci configura più intimamente a Cristo. Così, associati in modo
particolare all'opera della Redenzione, ci uniamo più strettamente con
tutto il Corpo Mistico. Il
priore mostri una speciale sollecitudine e misericordia verso gli infermi,
i vecchi e quelli che sono nella prova. Ciò si raccomanda anche a tutti
coloro ai quali è affidata la cura degli infermi. Secondo la possibilità
della casa, si fornisca caritatevolmente agli ammalati tutto ciò che è
necessario e giovevole. Tutti i servizi, anche i più intimi, a cui essi
non possono attendere da sé, siano compiuti umilmente dagli altri, in
modo che si reputi felice chi ha ricevuto un tale incarico. Coloro che
soffrono di qualche malattia nervosa, particolarmente molesta nella
solitudine, siano aiutati in ogni modo, così da comprendere che possono
dare gloria a Dio, purché, dimentichi di sé, si abbandonino con fiducia
alla volontà di Colui che è Padre. I
malati però, come dice S. Benedetto, siano ammoniti di far bene
attenzione a non contristare chi li serve, chiedendo cose superflue o
impossibili o magari lagnandosi. Ricordandosi della vocazione abbracciata,
riflettano che come vi è differenza tra il religioso sano e il secolare
sano, allo stesso modo il religioso infermo deve comportarsi diversamente
dal secolare infermo, per evitare - ciò non avvenga - che durante la
malattia l'animo si ripieghi su se stesso e resti vana la visita del
Signore. I
malati dunque siano invitati a meditare sulle sofferenze di Cristo, e chi
li serve sulle sue misericordie. Così i primi diverranno forti nel
sopportare e i secondi pronti nel soccorrere. E mentre quelli considerano
di essere serviti per Cristo e questi di servire per lui, i primi non si
inorgogliscono e i secondi non si scoraggiano, perché gli uni e gli altri
attendono dal medesimo Signore la ricompensa della fedeltà al proprio
dovere: i malati del patire, gli infermieri del compatire. Come
poveri di Cristo, ci accontenteremo del medico ordinario della casa o, se
il caso lo dovesse esigere, di uno specialista delle città vicine. Se,
oltre al medico abituale, un padre è costretto a consultare uno
specialista, il priore gli può concedere di recarsi in una delle città
vicine stabilite dai Visitatori col consenso del Capitolo Generale o del
Reverendo Padre, purché sia di ritorno lo stesso giorno. Ugualmente il
priore può permettere che un monaco sia ricoverato in ospedale; conviene,
tuttavia, che ne venga informato il Reverendo Padre. I
nostri malati, per amore della solitudine, ricevono, per quanto è
possibile, le cure necessarie nella propria cella. In tutte queste circostanze abbandoniamoci con animo docile alla volontà di Dio e ricordiamoci che mediante la prova dell'infermità veniamo preparati alla felicità eterna, ripetendo col salmista: Quale gioia, quando mi dissero: ”Andremo alla casa del Signore”.
Il
monaco ha scelto di seguire Cristo povero, per arricchirsi della sua
povertà. Poiché non pone la sua fiducia nelle cose terrene, ma in Dio,
ha un tesoro nel cielo a cui tende il suo cuore. Perciò, nulla
considerando come proprio, deve avere l’animo pronto a consegnare
spontaneamente e liberamente nelle mani del priore tutto ciò che gli è
stato concesso, ogni volta che questi lo voglia. I
professi solenni non hanno a loro disposizione personale se non quelle
cose di cui l’Ordine concede loro il semplice uso. Hanno anche
rinunziato alla facoltà di chiedere, ricevere, donare o vendere qualsiasi
cosa senza permesso. Anche fra di noi non possiamo scambiare o ricevere
nulla senza permesso. I
professi di voti temporanei e i donati, mentre conservano la proprietà
dei loro beni e la capacità di acquistarne altri, non tengono con sé
nulla di personale, come anche i novizi. Il maestro inculchi in modo
particolare ai suoi novizi il distacco dai beni temporali e dalle comodità,
e l'amore alla povertà. Secondo
l'insegnamento di Guigo, se un abito o un altro dono è stato mandato a un
monaco da un amico o da un parente, non lo si dia a lui, ma piuttosto ad
un altro, affinché egli non abbia l'impressione di possedere qualcosa di
proprio. Perciò nessuna persona dell'Ordine osi rivendicare a sé
l’usufrutto o qualsiasi altro diritto sui libri o su ogni altro oggetto
ottenuto dall'Ordine grazie a lui; invece, se gli viene concesso tale uso,
lo riceva con gratitudine, valendosene non come di cosa propria, ma
altrui. Nessuno abbia mai denaro a sua disposizione, né lo custodisca
presso di sé. Poiché
il Figlio dell'uomo non ebbe dove posare il capo, siano rigorosamente
osservate nelle nostre celle la semplicità e la povertà. Con zelo
costante rimuoviamo da esse le cose superflue e che destano curiosità,
chiedendo volentieri anche il parere del priore. Nei
nostri abiti evitiamo ogni ricercatezza e superfluità contrarie alla
semplicità e alla povertà religiosa. In tutto quello che riguarda
l'abbigliamento i nostri padri non si curavano d'altro che di ripararsi
dal freddo e di coprirsi, giudicando che conveniva senza dubbio ai
certosini la povertà nel vestire e in tutti gli oggetti a loro uso. Noi,
conservando il loro spirito, abbiamo tuttavia cura che i vestiti e le
celle di ognuno siano puliti e bene in ordine. Gli
strumenti di un certo valore sono permessi solamente a coloro ai quali, a
giudizio del priore, sono necessari. Però non si addicono alla nostra
vocazione gli strumenti musicali e i giochi di qualsiasi genere. Tuttavia,
per imparare il nostro canto, possono essere ammessi gli apparecchi che
servono a guidare la voce o a registrarla. Da noi gli apparecchi
radiofonici sono del tutto esclusi. Poiché per la grande diversità delle regioni, di frequente ciò che è necessario in un luogo diviene superfluo in un altro, così che non è possibile stabilire una regola fissa e generale per tutti, esortiamo i priori a mostrarsi condiscendenti nel provvedere a tutte le necessità dei loro monaci, per quanto lo permettono gli averi delle case. Mossi dalla carità di Cristo, non tollerino affatto di poter ricevere motivati rimproveri a tal riguardo, né inducano con la loro tirchieria i monaci al vizio di proprietà. La povertà sarà tanto più gradita al Signore quanto più sarà volontaria. Ciò che merita lode non è l’aver perduto le comodità del secolo, ma l'avervi rinunziato.
Il
priore non amministra beni propri o di uomini, ma di Cristo povero, al
quale dovrà rendere conto di ogni cosa. Perciò è suo compito dirigere
nell'amministrazione economica gli ufficiali e i loro aiutanti, gestire i
beni con discrezione, secondo Dio, la propria coscienza, lo spirito
dell'Ordine e dei nostri Statuti e aver sollecita cura che nulla sia speso
male. All'inizio
dell'anno o in un altro momento, secondo le usanze della casa, il priore
chieda al procuratore di fare alla presenza sua e del consiglio il
rendiconto di tutte le entrate e le uscite dell'anno precedente. E tutti,
insieme col priore, esaminino se nella casa si osservi realmente la povertà
prescritta dagli Statuti. Per
il sostentamento delle nostre case, i nostri padri stabilirono di non
contare sui donativi che ci vengono inviati, ma di avere con l'aiuto di
Dio, qualche reddito annuo fisso. Non parve infatti loro opportuno
sobbarcarsi, per benefici incerti, a impegni certi che non potevano essere
assunti o lasciati senza grave rischio; tanto più che avevano in orrore
l'uso di girovagare e di questuare. Tuttavia,
crediamo che con l’aiuto di Dio ci basteranno modeste risorse, se
persiste l’amore del primitivo ideale di umiltà, povertà, sobrietà
nel cibo, nel vestito e in tutti gli oggetti di nostro uso, e se, infine,
progrediscono di giorno in giorno il distacco dal mondo e l’amore di
Dio, per il quale tutto va fatto e sopportato. A noi certamente si
riferiscono le parole del Signore: Non
affannatevi per il domani; il Padre vostro celeste sa infatti che avete
bisogno di tutte queste cose; cercate prima il regno di Dio e la sua
giustizia. Sebbene
sia lecito alla casa possedere il necessario perché la comunità viva
secondo lo spirito della nostra vocazione, tuttavia per testimoniare
un'autentica povertà va rigettata ogni specie di lusso, di lucro
eccessivo e di accumulazione di beni. Non basta infatti che i monaci siano
soggetti al superiore nell'uso dei beni, ma occorre inoltre che, come
Cristo, siano dei veri poveri, il cui tesoro è nei cieli. Non dobbiamo
soltanto evitare la sontuosità, ma anche le comodità eccessive, affinché
nelle nostre case tutto spiri il profumo di semplicità della nostra
vocazione. Non
si acquistino veicoli, macchine e strumenti se non dopo maturo esame e
quando risulti certa la loro necessità ed utilità, cosa questa che può
essere principalmente presa in considerazione se tali attrezzi
contribuiscono a custodire la solitudine dei fratelli e ad essi
risparmiano lavoro. I
nostri edifici siano sufficienti e adatti al nostro genere di vita,
tuttavia da per tutto vi si osservi la semplicità. Infatti, le nostre
case devono dare testimonianza non di vanagloria o di arte, ma di povertà
evangelica. Esortiamo infine tutti i priori del nostro Ordine e li preghiamo per l'amore di Dio e del Salvatore nostro Gesù Cristo, che per noi offrì se stesso in olocausto sul legno della Croce, affinché si adoperino di tutto cuore ad elargire generose elemosine secondo le possibilità delle loro case, tenendo presente che tutto quel che si spende o si accumula senza moderazione è rubato ai poveri e alle necessità della Chiesa. Così, rispettando questa destinazione comune dei beni, imitiamo i primi cristiani, presso i quali nessuno diceva che qualcosa era di sua proprietà, ma tutto era fra loro comune.
Il
monaco non offre a Dio un perfetto sacrificio di se stesso se non è
costante nel perseverare per tutta la vita nella sua vocazione, cosa che
promette di fare liberamente con la professione solenne. E poiché essa è
irrevocabile, prima di emetterla rifletta con calma se vuole davvero
consacrarsi a Dio per sempre. In
forza della professione il monaco è inserito nella comunità come nella
famiglia datagli da Dio, nella quale dovrà stabilirsi col corpo e con lo
spirito. Perciò
ciascuno, sia padre sia fratello, dopo che si è consacrato a Dio nel
proprio stato, rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato, e
vada sempre progredendo per una più rigogliosa santità della Chiesa, per
la maggior gloria della Trinità una e indivisibile. Solamente per gravi motivi il Capitolo Generale, il
Reverendo Padre o i Visitatori nella propria Provincia, possono trasferire
qualcuno ad un'altra casa. Prima che questo si faccia, devono, per quanto
è possibile, essere consultate le persone interessate. I
monaci non credano con facilità di avere ragioni per poter chiedere
trasferimenti ai superiori. L'illusione di star meglio in altri luoghi e
il piacere della novità hanno tratto molti in inganno; inoltre non si
addice al monaco dare troppa importanza al clima, alla qualità dei cibi,
al tipo di persone e ad altre simili contingenze. Sappiamo quanto il perseverare pazientemente nelle circostanze stabilite per noi dal Signore giovi alla contemplazione delle realtà divine. È impossibile infatti all'uomo fissare di continuo l'animo in un'unica realtà, se prima non avrà stabilito con perseveranza il suo corpo in un determinato luogo; anche la mente deve aderire irremovibilmente alla propria vocazione per poter avvicinarsi a Colui nel quale non c'è variazione né ombra di mutamento. |