Libro 1 - I monaci del chiostro
Coloro
che furono i padri del nostro Ordine seguivano il lume dell'oriente, ossia
di quegli antichi monaci che, ardenti d'amore per il ricordo del Sangue
del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la
vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i monaci del
chiostro, calcando le loro orme, dimorino come essi in eremi
sufficientemente remoti dalle abitazioni degli uomini e in celle al riparo
dai rumori sia del mondo, sia della casa stessa; ma soprattutto bisogna
che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane. Chi
dimora stabilmente in cella e da essa è formato, mira a rendere tutta la
sua vita un'unica e incessante preghiera. Ma non può entrare in questa
quiete, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia
mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la
Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato
come oro nel crogiolo. Così, purificato dalla pazienza, consolato e
nutrito dall'assidua meditazione delle Scritture, e introdotto dalla
grazia dello Spirito nelle profondità del suo cuore, diverrà capace non
solo di servire Dio, ma di aderire a lui. È
anche necessario dedicarsi a qualche lavoro manuale, non tanto per la
piacevole distensione che esso apporta momentaneamente all'animo, ma
piuttosto perché, col sottomettere il corpo alla comune legge degli
uomini, esso conservi ed alimenti il gusto degli esercizi spirituali.
Perciò al monaco sono concessi in cella gli utensili necessari, affinché
non sia costretto ad uscirne. Infatti ciò è lecito solo quando ci si
raduna nel chiostro o in chiesa, o per le occasioni generalmente
stabilite. Tuttavia, quanto più austera è la vocazione che abbiamo
abbracciato, tanto più siamo obbligati alla povertà in tutte le cose che
sono di nostro uso. È necessario infatti che seguiamo l'esempio di Cristo
povero se vogliamo aver parte alle sue ricchezze. Riuniti
dall'amore del Signore, dalla preghiera e dal desiderio ardente della
solitudine, i padri si mostrino veri discepoli di Cristo non tanto di nome
quanto di fatto; coltivino con ardore l’amore reciproco, avendo i
medesimi sentimenti, sopportandosi a vicenda, perdonandosi scambievolmente
se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri, affinché
con un solo animo e una voce sola rendano gloria a Dio. I
padri inoltre abbiano sempre dinanzi alla mente l'intimo legame che in
Cristo li unisce ai fratelli. Riconoscano di dipendere da essi per poter
offrire al Signore una preghiera pura nella quiete e nella solitudine
della cella. Ricordino che il sacerdozio, del quale sono stati insigniti,
è un servizio reso alla Chiesa, specialmente verso i membri che sono loro
più vicini, ossia verso i fratelli della propria casa. Gareggiando nello
stimarsi a vicenda, padri e fratelli vivano nella carità che è il
vincolo di perfezione, il fondamento e il culmine di ogni vita consacrata
a Dio. È
dovere del priore mostrarsi a tutti i suoi figli, monaci del chiostro e
fratelli, come segno dell'amore del Padre celeste, e unirli in Cristo in
modo tale che formino un’unica famiglia e ognuna delle nostre case,
secondo l’espressione di Guigo, sia veramente una chiesa
certosina. Quest'ultima
ha la sua origine e il suo cardine nella celebrazione del sacrificio
eucaristico, che è il segno efficace dell'unità. Esso è pure il centro
e l'apice della nostra vita e il cibo del nostro esodo spirituale, grazie
al quale, nella solitudine, per il Cristo ritorniamo al Padre. Anche in
tutta la liturgia Cristo prega per noi come nostro Sacerdote, e in noi
come nostro Capo, tanto che possiamo riconoscere le nostre voci in lui e
la sua in noi. Nella
veglia notturna il nostro Ufficio, secondo l'antico uso, si protrae
abbastanza lungamente; tuttavia non supera i limiti della discrezione. Così
la pietà interiore viene alimentata dalla salmodia, in modo tale che
possiamo, d’altra parte, dedicarci alla preghiera segreta del cuore,
senza che ne nascano tedio o stanchezza. Secondo
una nostra antica consuetudine, ogni monaco del chiostro, per mirabile
degnazione della divina misericordia, è destinato al sacro ministero
dell'altare. Si manifesta così in lui quell'armonia che, secondo
l'affermazione di Paolo VI, intercorre tra la consacrazione sacerdotale e
quella monastica; infatti ad imitazione di Cristo, egli diventa
contemporaneamente sacerdote e vittima di soave odore per Dio, e per
l’unione al sacrificio del Signore partecipa alle imperscrutabili
ricchezze del suo Cuore. Essendo
il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che
conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo.
Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell'urgente
necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo
la nostra funzione specifica. Eserciti Marta il suo servizio certamente degno di lode, ma non privo di affanni e agitazione; tuttavia sopporti la sorella che, calcando le orme di Cristo, quieta e disponibile, lo contempla nella sua divinità; che scruta il proprio intimo, aprendo il suo cuore alla preghiera e ascolta quel che interiormente le dice il Signore, pervenendo così nella debole misura che le è possibile, come in uno specchio e in maniera confusa, a gustare e vedere quanto egli è buono, e pregando sia per Marta che per tutti coloro che, come lei, sono impegnati nel lavoro. Essa non ha solamente il più giusto giudice, ma anche il più fedele avvocato, cioè lo stesso Signore, che si degna non solo di difenderne la vocazione, ma anche di farne l’elogio, affermando: Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta; con tali parole la dispensò dall’immischiarsi negli affanni e nelle inquietudini, per quanto caritatevoli, di Marta.
Il
nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel
dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la
terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso
insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l'anima
fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le
cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane. Tuttavia
lungo è il cammino attraverso brulla e riarsa strada prima di arrivare
alle fonti d'acqua e alla terra promessa. Conviene
perciò
che
l'abitatore
della
cella
badi
con
diligente
sollecitudine
di
non
inventare
o
accettare
occasioni
di
uscirne,
eccettuate
quelle
che
sono
generalmente
stabilite,
ma
piuttosto
stimi
la
cella
così
necessaria
alla
sua
salvezza
e
alla
sua
vita
come
l'acqua
ai
pesci
e
l’ovile
alle
pecore.
Se,
invece,
avrà
preso
l'abitudine
di
uscire
di
cella
con
frequenza
e
per
futili
motivi,
ben
presto
gli
diverrà
odiosa,
secondo
quel
detto
di
sant’Agostino:
Per gli amici di questo mondo niente è più affannoso che non affannarsi. Al contrario, quanto più a lungo dimorerà in cella, tanto più lo farà volentieri, purché tuttavia sappia occuparvisi con ordine e utilmente a leggere, scrivere, salmodiare, pregare, meditare, contemplare e lavorare. Abbia frattanto familiare quel tranquillo ascolto del cuore che lascia entrare Dio da tutte le porte e da tutte le vie. Così, con l'aiuto del Signore, eviterà i pericoli che non rare volte insidiano il solitario, cioè di seguire
nella cella la via più comoda, e di essere annoverato tra i tiepidi. Chi
l'ha sperimentato, sa quale frutto porti il silenzio. Benché nei primi
tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati
fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l'attrattiva verso un
silenzio ancora maggiore. Per ottenerlo è stato stabilito che non
possiamo parlare gli uni con gli altri senza il permesso del presidente. Il
primo atto di carità verso i nostri fratelli consiste nel rispettare
la
loro
solitudine;
e
se
abbiamo
il
permesso
di
parlare di
qualche faccenda, la nostra conversazione sia, per quanto è possibile,
breve. Dio
ci ha condotti nella solitudine per parlarci al cuore. Sia perciò il
nostro cuore come un altare vivente dal quale salga perennemente al
cospetto di Dio una preghiera pura; di essa tutte le nostre azioni devono
essere come impregnate.
Il
monaco del chiostro, soggetto secondo lo spirito della propria vocazione
alla legge divina del lavoro, fugge l'ozio che secondo gli antichi è
nemico dell'anima. Perciò si applica umilmente e con gioia a tutte le
occupazioni richieste dalle necessità della sua vita povera e solitaria;
in modo tale tuttavia che ogni cosa sia ordinata al servizio della
contemplazione di Dio alla quale è totalmente consacrato. Infatti, oltre
ai diversi generi di lavori manuali, costituiscono la sua opera
giornaliera tutti i doveri che il suo stato richiede, principalmente
quanto riguarda il culto divino e lo studio delle scienze sacre. In
primo luogo, per non trascorrere inutilmente in cella il tempo della vita
religiosa, con solerzia congiunta a discrezione, il monaco del chiostro
deve applicarsi agli studi a lui adatti, non per smania di imparare o di
pubblicare libri, ma perché la lettura, sapientemente regolata, dà una
formazione più solida all'anima ed offre il fondamento alla
contemplazione delle realtà celesti. Infatti, sbagliano coloro che
credono di potersi facilmente innalzare ad un'intima unione con Dio se
hanno trascurato in antecedenza lo studio della sua Parola o se l'hanno
abbandonato in seguito. Perciò, più attenti alla sostanza del pensiero
che alla spuma delle parole, dobbiamo scrutare i divini misteri con quel
desiderio di conoscere che nasce dall'amore e l'amore accende. Con
il lavoro manuale il monaco si esercita nell'umiltà e riduce in schiavitù
tutto il suo corpo per meglio conseguire la stabilità dello spirito.
Perciò nei tempi stabiliti, è lecito dedicarsi a lavori manuali che
siano veramente utili. Infatti non conviene perdere in occupazioni
superflue o inutili il tempo prezioso che è concesso a ciascuno per
glorificare Dio. Ma da questo tempo non è esclusa l'utilità della
lettura e della preghiera; anzi si può ricorrere sempre, durante il
lavoro, almeno a brevi orazioni giaculatorie. Talvolta può anche accadere
che il peso del lavoro si debba porre come un’ancora all'agitarsi dei
pensieri, così che il cuore può rimanere continuamente fisso in Dio,
senza che la mente si stanchi. Il
lavoro è un servizio per cui ci uniamo a Cristo che non venne per essere
servito ma per servire. Meritano lode tutti coloro che di propria
iniziativa hanno cura della suppellettile, degli strumenti e degli altri
oggetti che usano in cella, in modo da risparmiare, per quanto è
possibile, lavoro ai fratelli. Peraltro, è dovere di tutti tenere la
cella in ordine e pulita. Il
priore può sempre ordinare ad un padre qualche lavoro o servizio di
comune utilità; questi lo accetta volentieri e con gioiosa carità, perché
nel giorno della sua professione ha chiesto di essere ricevuto come il più
umile servo di tutti. Quando però si affida qualche lavoro a un monaco
del chiostro, esso sia sempre tale da garantire la libertà dello spirito
mentre lo si compie, e da non far sorgere affannosa inquietudine per
motivi di lucro o per scadenze fisse in cui terminare il lavoro. È
infatti necessario che il solitario, attento non tanto a ciò che fa,
quanto al fine per cui agisce possa custodire sempre vigile il cuore.
Perché poi il monaco possa rimanere quieto e sano nella solitudine, sarà
spesso opportuno che goda di una certa libertà nell'organizzare il
proprio lavoro. In
via ordinaria i padri non siano chiamati a lavorare fuori delle proprie
celle, specialmente nelle obbedienze dei fratelli. Quando però capita che
dei padri siano incaricati di attendere insieme alla stessa occupazione,
possono parlare tra di loro di ciò che è utile al loro lavoro, ma non
con chi sopraggiunge. Pertanto, la nostra attività scaturisca sempre come da una sorgente interiore, sull'esempio di Cristo, che opera sempre con il Padre, di modo che il Padre, dimorando in lui, compia egli stesso le opere. Così seguiremo Gesù nella sua umile e nascosta vita di Nazaret, sia pregando il Padre nel segreto, sia lavorando al suo cospetto in spirito di obbedienza.
Fin
dagli inizi fu intenzione del nostro Ordine di esprimere e custodire la
nostra totale consacrazione a Dio mediante lo stretto rigore della
clausura. Quanto grande dovrebbe essere la necessità perché si possa
uscire dalla clausura, appare evidente dal fatto che il Reverendo Padre
non esce mai dai confini del deserto di Certosa. Perciò, dovendo essere
osservata in modo uguale per tutti una sola e medesima regola da coloro
che l'hanno professata, noi che abbiamo abbracciato la vocazione
certosina, per cui siamo chiamati certosini, non ammettiamo facilmente
eccezioni; se poi qualche necessità ci obbligherà ad uscire, dobbiamo
chiedere sempre il permesso al Reverendo Padre, eccetto che si tratti di
un caso urgente e di altri previsti dagli Statuti. Ma
il rigore della clausura si cambierebbe in farisaica osservanza, se non
fosse il segno di quella purezza di cuore cui soltanto è promesso di
vedere Dio. Per conseguirla si richiede un grande spirito di
mortificazione, soprattutto della naturale curiosità che l’uomo prova
per le vicende umane. Non dobbiamo permettere alla nostra mente di vagare
per il mondo alla ricerca di novità e di chiacchiere; nostro compito
invece è di rimanere nascosti nel segreto del volto del Signore. Dobbiamo
evitare i libri profani e i periodici che possono turbare il nostro
silenzio interiore. Sarebbe soprattutto contrario allo spirito del nostro
Ordine introdurre nella clausura, in qualsiasi modo, giornali che trattano
di politica. Anzi, i priori persuadano i monaci ad essere molto sobri
nelle letture profane. Però questa esortazione richiede un animo maturo e
padrone di sé, che sappia coerentemente abbracciare tutte le conseguenze
della parte migliore che ha scelto, quella di sedere ai piedi del Signore
ed ascoltarne la parola. La
familiarità con Dio tuttavia non restringe ma dilata il cuore, così che
possa abbracciare in lui le aspirazioni e i problemi del mondo e le grandi
cause della Chiesa, delle quali è conveniente che i monaci abbiano una
certa conoscenza. Però la sincera sollecitudine per gli uomini deve
essere vissuta non soddisfacendo alla curiosità, ma con un’intima
unione con Cristo. Ascoltando nel proprio cuore lo Spirito, ciascuno veda
quel che può ammettere nella sua mente, senza che ne sia turbato il
colloquio con Dio. Se
poi, per caso, giungesse a noi qualche notizia di quanto avviene nel
mondo, guardiamoci dal trasmetterla ad altri; ma piuttosto lasciamo i
rumori del secolo là dove li abbiamo uditi. Spetta infatti al priore dare
ai suoi monaci le informazioni che non è bene che essi ignorino,
particolarmente sulla vita della Chiesa e sulle sue necessità. Con
le persone dell’Ordine o con altri che talvolta sono di passaggio nella
nostra casa non cerchiamo di parlare se non per una vera necessità.
Infatti a un fedele amante della solitudine e del silenzio, avido di
quiete, non giova fare o ricevere visite senza motivo. Poiché
sta scritto: Onora tuo padre e tua
madre, mitighiamo un poco il rigore della clausura per ricevere i
genitori o gli altri nostri parenti ogni anno per due giorni separati o
consecutivi. Però evitiamo altre visite di amici e conversazioni con
secolari, tranne che l'amore di Cristo lo renda inevitabilmente
necessario. Sappiamo infatti che Dio è degno che gli si offra questo
sacrificio, e che esso gioverà agli uomini più che le nostre parole. Anche
la clausura esterna sarebbe inutile se mantenessimo un frequente contatto
con persone di fuori mediante corrispondenza epistolare. Non mandiamo né
riceviamo lettere senza che ne sia stato informato il priore. Non
impartiamo mai direzione spirituale per lettera. Né è lecito ad alcuno
di noi predicare in pubblico; se infatti i secolari non traggono profitto
dal nostro silenzio, tanto meno lo trarranno dalla nostra parola. Nelle
nostre case canonicamente erette si osservi una stretta clausura conforme
alla tradizione dell'Ordine. In clausura le donne non possono essere
ammesse. Quando parliamo con donne osserviamo quella modestia che conviene
ad un monaco. Ricordino
i monaci che la castità da essi abbracciata per il regno dei cieli deve
essere apprezzata come un insigne dono della grazia. Essa infatti rende
libero in maniera speciale il loro cuore, così da poter più facilmente
aderire al Signore con amore indiviso. In tal modo essi evocano quelle
nozze misteriose operate da Dio e che si manifesteranno pienamente nel
secolo futuro, per cui la Chiesa ha Cristo come unico Sposo. Bisogna
dunque che, sforzandosi di osservare fedelmente la loro professione,
credano nelle parole del Signore, e, confidando nell'aiuto divino, non
presumano delle loro forze, ma pratichino la mortificazione e la custodia
dei sensi. Confidino anche in Maria, che per la sua umiltà e la sua
verginità ricevette la grazia di divenire Madre di Dio. Quanta
utilità e gioia divina arrechino la solitudine ed il silenzio dell'eremo
a coloro che li amano, lo sanno solo quelli che ne hanno fatto
l'esperienza. Qui
infatti gli uomini coraggiosi possono rientrare in se stessi quanto
vogliono e dimorare nel loro cuore, coltivare intensamente i germi delle
virtù e gustare con gioia i frutti del paradiso. Qui
si acquista quell’occhio il cui sereno sguardo ferisce d'amore lo Sposo
e grazie alla cui purezza e luminosità si vede Dio. Qui
ci si applica assiduamente ad un ozio attivo e si riposa in un’azione
quieta. Qui,
in cambio del faticoso combattimento, Dio dona ai suoi atleti la
desiderata ricompensa, cioè la pace che il mondo ignora e la gioia nello
Spirito Santo.
Cristo
patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Noi lo
facciamo, sia accettando le tribolazioni e gli affanni di questa vita, sia
abbracciando la povertà nella libertà dei figli di Dio e rinunciando
alla nostra volontà. Secondo la tradizione monastica è inoltre nostro
dovere seguire Cristo che digiuna nel deserto, trattando duramente il
nostro corpo e riducendolo in schiavitù, affinché lo spirito risplenda
del desiderio di Dio. I
monaci del chiostro fanno un’astinenza alla settimana, ordinariamente il
venerdì. In tale giorno si accontentano di pane ed acqua. In certi giorni
e in certi periodi dell'anno osservano il digiuno d'Ordine, cioè fanno un
solo pasto al giorno Dobbiamo
abbracciare la mortificazione della carne non solo per obbedire agli
Statuti, ma principalmente perché, liberi dai voleri della carne,
possiamo seguire più prontamente il Signore. Se
in un dato caso o con l’andar del tempo uno si accorgesse che qualcuna
delle nostre osservanze superi le sue forze, e che il suo spirito ne sia
piuttosto ritardato che animato a seguire Cristo, con cuore filiale fissi
col priore una mitigazione adeguata alle sue esigenze, almeno per un certo
tempo. Però, sempre memore di Cristo che lo chiama, veda che cosa sia in
grado di fare e offra al Signore in altro modo quel che non può dare
mediante l'osservanza comune, rinnegando sé stesso e portando ogni giorno
la sua croce. Occorre
dunque abituare gradatamente i novizi alle astinenze e ai digiuni
dell'Ordine, affinché tendano in modo prudente e sicuro al rigore
dell'osservanza sotto la guida del maestro. Questi in particolare insegni
loro a non mancare alla sobrietà al momento dei pasti, col pretesto dei
digiuni che devono osservare. Così impareranno a castigare mediante lo
spirito le opere della carne e a portare nel proprio corpo la morte di Gesù,
perché anche la vita di Gesù si manifesti nei loro corpi. Secondo
l'osservanza introdotta dai nostri primi padri e incessantemente custodita
con singolare impegno, abbiamo escluso dal nostro genere di vita ogni uso
della carne, sia sotto forma di cibo che di bevanda. Questa astinenza sia
osservata come caratteristica dell’Ordine e segno dell'austerità
eremitica nella quale, con la grazia di Dio, intendiamo perseverare. Nessuno di noi all'insaputa e senza il consenso del priore pratichi altri esercizi di penitenza, oltre a quelli indicati nei presenti Statuti. Però, se a qualcuno di noi il priore volesse far prendere un supplemento di cibo, di sonno o di qualsiasi altra cosa, oppure gli volesse imporre qualche penosa austerità, non ci è lecito rifiutare, per non trovarci ad aver resistito col nostro rifiuto non a lui ma al Signore, di cui egli fa le veci presso di noi. Sebbene infatti molteplici e diverse siano le nostre osservanze, tuttavia crediamo che niente possa riuscirci fruttuoso senza il bene dell'obbedienza. Coloro
che, ferventi di divino amore, desiderano lasciare il mondo e cercare i
beni eterni, quando vengono da noi siano ricevuti con quel medesimo
spirito. È perciò assai necessario che i novizi trovino nelle case dove
verranno formati l’esempio di osservanza regolare, di pietà, di
custodia della cella e del silenzio, e di carità fraterna. Mancando
queste condizioni, c'è poca speranza che possano perseverare nella nostra
vocazione. I
candidati che vengono da noi devono essere esaminati diligentemente e con
cautela, secondo la raccomandazione dell’Apostolo Giovanni: Mettete
alla prova le ispirazioni per vedere se provengono da Dio.
L'esperienza dimostra senza alcun dubbio che il progresso o la decadenza
di un Ordine, sia quanto al valore, sia quanto al numero dei membri,
dipende principalmente da un’attenta o negligente ammissione e
formazione dei novizi. I
priori devono perciò indagare con precauzione sulla famiglia dei novizi e
sulla loro vita antecedente, come anche sulla loro idoneità di mente e di
corpo; anzi, a tale proposito sarà utile consultare medici esperti che
conoscano bene il nostro genere di vita. Infatti fra le qualità di cui
devono essere dotati gli aspiranti alla vita solitaria va annoverato in
primo luogo un criterio equilibrato e sano. Non
siamo soliti accettare novizi sotto i venti anni; inoltre, di coloro che
chiedono di essere ricevuti vanno ammessi soltanto quelli che, a giudizio
del priore e della maggioranza della comunità, posseggono un grado
sufficiente d'istruzione, di pietà, di maturità e di forze fisiche per
assumere le osservanze dell'Ordine; e siano sufficientemente atti non solo
alla solitudine, ma anche alla vita comune. Nel
ricevere persone di età avanzata dobbiamo essere più cauti, perché
troppo difficilmente si abituano alle osservanze e al nostro genere di
vita; perciò non vogliamo che si riceva nessuno di età superiore ai
quarantacinque anni compiuti, senza espressa autorizzazione del Capitolo
Generale o del Reverendo Padre. Questo permesso
si
richiede
anche
per
ammettere
al
noviziato
un
religioso
che
è
vincolato
con
la
professione
in
un
altro
istituto;
e
se
si
tratta
di
un
professo
di
voti
perpetui,
il
Reverendo
Padre
deve
ottenere
il
consenso
del
Consiglio
Generale.
Per
l’ammissione
di
una
persona
che
in
passato
sia
stata
vincolata
con
voti
in
un
istituto
religioso,
siamo
invitati
a
chiedere
prima
il
parere
del
Reverendo
Padre.
Quando qualcuno si presenta a noi perché desidera farsi monaco del chiostro, prima di tutto deve essere interrogato privatamente
sul motivo e l'intenzione
che a ciò lo spingono. E se davvero sembra che cerchi Dio solo, si procede all'esame di altri punti che allora occorre conoscere: se abbia una cultura umanistica sufficiente per un monaco che deve essere promosso al sacerdozio;
se possa cantare; se non sia vincolato da qualche impedimento
canonico. Il postulante poi non potrà iniziare
il noviziato senza conoscere sufficientemente la lingua latina. Ciò fatto, viene chiaramente spiegato al candidato il
fine della nostra vita, la gloria che speriamo provenga a Dio dalla nostra
cooperazione all'opera redentrice, e quanto sia bello e gioioso aderire a
Cristo dopo aver abbandonato tutto. Però gli si prospettano anche le
difficoltà e le austerità, e, per quanto è possibile, gli si pone
davanti agli occhi il quadro completo del genere di vita cui intende
sottoporsi. Se sarà rimasto imperterrito di fronte a tale presentazione,
e se avrà promesso risolutamente di essere disposto a perseverare in un
arduo cammino in forza delle parole del Signore, deciso a morire con
Cristo per vivere con lui, allora lo si consiglia di riconciliarsi,
secondo il Vangelo, con tutti coloro che abbiano qualcosa contro di lui. Dopo
un periodo di prova, della durata di almeno tre mesi o di un anno al
massimo, in un giorno determinato il postulante viene presentato alla
comunità, la quale, in un altro giorno, voterà sulla sua ammissione al
noviziato. Il
novizio consegni integralmente al priore il denaro e gli altri oggetti che
potrebbe aver portato con sé, affinché non lui ma il priore, o chi dal
priore ne sarà stato incaricato, li conservi fedelmente in deposito,
perché il novizio ha abbandonato tutto per seguire Cristo. Noi non
esigiamo né chiediamo assolutamente nulla ai novizi e a coloro che
intendono entrare nel nostro Ordine. Il
noviziato dura due anni; tempo che può essere prolungato dal priore, ma
non oltre sei mesi. Il novizio non si spaventi per le tentazioni che solitamente insidiano coloro che seguono Cristo nel deserto; né confidi nelle proprie forze, ma abbia fiducia nel Signore che gli ha dato la vocazione e porterà a termine l'opera iniziata. La
formazione dei novizi va affidata ad un maestro, che sia una persona
ragguardevole per prudenza, carità e regolare osservanza, dotato di
conveniente maturità ed esperienza delle cose dell'Ordine, cultore
insigne della quiete e della custodia della cella, che irradi amore per la
nostra vocazione, che sappia anche comprendere la diversità dei caratteri
e abbia lo spirito aperto alle necessità dei giovani. Tuttavia egli
faccia attenzione a saper scusare i difetti degli altri pur essendo
sollecito con tutto il cuore della perfezione spirituale dei giovani. Nel
ricevere
i
novizi
il
maestro
sia
sollecito
e
vigile,
ed
anteponga
la
qualità
al
numero.
Per
divenire
certosino
di
fatto
oltre
che
di
nome,
non
basta
volerlo;
si
richiede
anche
una
speciale
attitudine
di
anima
e
di
corpo
che,
unita
all'amore
per
la
solitudine
e
per
il
nostro
genere
di
vita,
permetta
di
discernere
la
vocazione
divina.
Il
maestro
ponga
attenzione
a
questi
requisiti,
perché
spetta
soprattutto a lui esaminare e provare i novizi. Non ignori che certi
difetti, che forse in un primo momento paiono di poco conto, dopo la
professione tendono assai spesso a crescere e rafforzarsi. Non accettare o
rimandare qualcuno è certamente una grave responsabilità, e non si deve
prendere una risoluzione al riguardo se non dopo maturo esame; però
ammettere un candidato o trattenerlo troppo a lungo quando risulta che gli
manchino le doti necessarie è falsa e quasi crudele compassione. Il
maestro badi con gran cura che il novizio prenda in piena libertà una
decisione riguardo alla sua vocazione e non lo spinga in nessun modo a
emettere la professione. A
tempo debito il maestro visiterà il novizio e gli insegnerà le
osservanze dell'Ordine, che non deve ignorare. Si adopererà anche con
zelo, affinché studi attentamente gli Statuti dell'Ordine. È anche
compito del maestro la formazione morale del novizio, dirigerlo nelle
pratiche spirituali ed offrirgli i rimedi opportuni nelle sue tentazioni.
Cercherà con sollecitudine che l'amore dei novizi per Cristo e la Chiesa
cresca di giorno in giorno. Sebbene, sul modello del nostro santo padre
Bruno, egli debba avere il cuore di una madre, è opportuno che mostri
anche l'energia di un padre, affinché la formazione dei novizi sia
monastica e virile. Lasci che essi sperimentino soprattutto la vita
solitaria in cella e la sua austerità, ed insegni loro a prestarsi
scambievole aiuto spirituale nella carità sincera e semplice. È
assai utile che il novizio si dedichi agli studi e ai lavori manuali; però
non basta che sia occupato in cella e vi perseveri in modo degno di lode
fino alla morte; altro si richiede: cioè lo spirito di orazione e di
preghiera. Difatti se venissero a mancare la vita con Cristo e l'intima
unione dell’anima con Dio, poco servirebbero la fedeltà alle cerimonie
e l'osservanza regolare, e si potrebbe giustamente paragonare la nostra
vita a un corpo privo di anima. Perciò il maestro abbia a cuore più di
tutto di inculcare ed accrescere con discrezione questo spirito, grazie al
quale i novizi dopo la professione possano avvicinarsi ogni giorno
maggiormente a Dio e conseguire il fine della loro vocazione. Il
maestro risalga di continuo alle fonti di tutta la vita cristiana, ai
documenti della tradizione monastica e all'ispirazione primitiva del
nostro Ordine. Illustri sotto tutti gli aspetti lo spirito del nostro
padre san Bruno e custodisca le autentiche tradizioni raccolte
specialmente da Guigo e conservate con fedeltà fin dalle origini
dell'Ordine. Nel
secondo anno di noviziato i giovani incomincino gli studi che devono
essere prudentemente ordinati alla loro formazione monastica e sacerdotale
secondo le direttive della Ratio
studiorum. Ma i monaci non siano promossi al sacerdozio finché non
posseggano la maturità umana e spirituale necessaria per aver parte a
questo dono di Dio con l'adeguata pienezza.
Il
monaco, morto al peccato e consacrato a Dio col battesimo, mediante la
professione si offre più pienamente al Padre e si libera dai legami del
mondo per poter tendere più direttamente alla carità perfetta. Stretto
al Signore con patto saldo e stabile, partecipando al mistero della
Chiesa, unita a Cristo con vincolo indissolubile, dà testimonianza al
mondo della vita nuova acquisita mediante la Redenzione di Cristo. Verso
lo scadere del secondo anno di noviziato, se il novizio sembrerà che
possa essere ammesso, sia presentato alla comunità che a distanza di
qualche giorno, dopo un diligente esame, deciderà sulla sua ammissione.
Da parte sua il novizio si obblighi con libertà piena e dopo matura
riflessione. La
prima professione è emessa per tre anni. Allo scadere del triennio,
spetta al priore, dopo un voto della comunità, ammettere il giovane
professo a trascorrere due anni coi professi di voti solenni. Nel qual
caso il monaco rinnoverà la professione temporanea per un biennio.
Durante uno di questi due anni, regolarmente nel secondo, il professo
temporaneo sia libero dagli studi scolastici per prepararsi con maggiore
riflessione ai voti solenni. Il
discepolo che vuole seguire Cristo deve rinnegare tutto e se stesso; perciò
prima dei voti solenni il futuro professo rinunzi a tutti i beni che in
quel momento possiede; può anche, se vuole, disporre dei beni di cui ha
diritto. Nessuna persona dell'Ordine chieda assolutamente nulla dei suoi
beni al professo temporaneo, anche per opere pie e per elemosine da
elargire a chiunque; egli stesso invece disponga liberamente dei suoi beni
come vuole. Nel
giorno stabilito il candidato emette la professione durante la Messa
conventuale, dopo il Vangelo o il Credo.
In quel momento infatti l'offerta di se stesso, che intende fare con
Cristo, è da Dio, per le mani del priore, accettata e consacrata. Il
futuro
professo
scriverà
di
persona
la
formula
di
professione
in
questi
termini:
Io, fra N., prometto... stabilità, obbedienza e conversione dei miei costumi davanti a Dio e ai suoi santi e alle reliquie di questo eremo, edificato ad onore di Dio, della Beata sempre Vergine Maria e di san Giovanni Battista, in presenza di dom N. priore. Se
si tratta della prima professione temporanea, dopo la parola prometto
si aggiunga per tre anni; e
qualora tale professione venga prorogata, si dica la durata della proroga;
se poi si tratta della professione solenne, si aggiunga perpetua. Si
noti che tutti i nostri eremi sono consacrati in primo luogo alla Beata
sempre Vergine Maria e a san Giovanni Battista, che consideriamo nostri
principali patroni celesti. Una
volta fatta la professione, colui che è stato ricevuto si considera così
estraneo a tutto ciò che è del mondo da non poter disporre più di
nulla, neppure di se stesso, senza il consenso del priore. Infatti, se
tutti coloro che hanno scelto la vita religiosa devono praticare con
grande zelo l’obbedienza, noi dobbiamo farlo con una dedizione e una
sollecitudine tanto più grandi quanto più austera e ardua è la regola
di vita cui ci siamo sottoposti, affinché non succeda che, Dio non
voglia, mancando l'obbedienza, tanti faticosi sforzi siano privi di
ricompensa. Ciò faceva dire a Samuele: L'obbedienza
è migliore del sacrificio, ed essere docili è più che offrire il grasso
degli arieti. Ad
esempio di Gesù Cristo che è venuto per fare la volontà del Padre e
che, assumendo la condizione di servo, imparò l'obbedienza dalle cose che
patì, il monaco con la professione si sottomette al priore, che
rappresenta Dio, e si sforza di conseguire la misura che conviene alla
piena maturità di Cristo. |