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Letture della preghiera notturna dei certosini

 

 

PIER DAMIANI

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Sulla condotta di vita degli eremiti Pier Damiani aveva scritto l'opuscolo XIV, all'epoca del suo priorato a Fonte Avellana. Egli ritorna sullo stesso argomento, ma in forma più estesa, in questo opuscolo XV. L'occasione nasce dalla domanda del novizio Stefano, che, passato dal cenobio all'eremo, gli aveva espresso il desiderio di conoscere "la regola della vita monastica". L'eremo, come lo presenta il dottore camaldolese, e la prima trincea, dello schieramento cristiano, dove la lotta come la vittoria è su un piano spirituale (186). Giorno dopo giorno, l'eremita sale i gradini della sua purificazione interiore. Dall'ascesi più intimamente vissuta e praticata, egli passa alla più facile e gioiosa ascesa verso il Signore (185. 186); il combattimento della cella prepara alla libertà della Gerusalemme celeste (191).

Pier Damiani vede dunque l'eremita come un uomo sedotto dal mistero divino, dalle realtà dell'alto; come Gesù spinto nel deserto dallo Spirito, affonda nel segreto della cella per anticipare la festa eterna: "Stai ancora faticando e penando, eppure in un certo senso gia godi il conforto del riposo" (185).

L'eremita è simile al viandante che va, persino che corre verso la patria (185), con lo sguardo teso verso la dimora della sua quiete (189). Tuttavia, il deserto, luogo di Dio, è anche il luogo di satana, perché la solitudine è il campo di battaglia dove sono combattute le lotte più dure dell'uomo (186). Il Damiani ha però una visione dinamica della guerra invisibile: essa è una tappa, che qualora sia superata, apre alla pace (187, 190). È quindi la sua una visione più positiva di altri che vedono soltanto la lotta continua, mentre nel nostro autore è molto chiaro il concetto di un "itinerario", all'insegna della perseveranza (191). Le armi del combattimento eremitico sono la quiete, il silenzio, il digiuno, il raccoglimento: mantenere la pace nell'anima contro gli stimoli della fantasia e dell'ambizione, contro la curiosità e il chiacchiericcio inutile, concentrarsi tranquillamente in Dio. L'austerità richiesta deve però mantenersi proporzionata alle forze di ognuno (186.188).

Il fine è diventare libero per Dio. Per questo l'eremita si consegna da prode al combattimento dell'amore (185.189) e impara "a dissodare la terra del cuore con il vomere della santa disciplina, suda e fatica per estirpare i rovi delle passioni" (190). L'ascesi è all'ordine del giorno nel deserto, perché "se al sacerdote compete consacrarsi alla celebrazione del santo sacrificio ... lo specifico del solitario consiste in una vita quieta, silenziosa e austera" (187). Digiuno e preghiera connotano l'eremita inequivocabilmente.

Diventare esicasta significa divenire uomo interiorizzato, attento alla Parola di Dio, che vuole trattarlo. come amico. Questo richiede una vigilanza diuturna per evitare ogni parola oziosa, vana, "che svuota l'anima di tutta la forza della grazia" (187. 191). Se il regime dell'eremo è austero, “la lunga consuetudine renderà soave anche tutto ciò che naturalmente ci fa orrore" (191).

Il frutto conquistato con la serietà di un impegno totale (191) sarà l'abbondanza dei doni divini. Questa benedizione di Dio, questa pioggia benefica (190), non è altro per il nostro autore se non il dono delle lacrime di compunzione e di tenerezza. Quando infatti l'anima è dominata interiormente dalla santa mestizia o dal timore di fronte alle profondità abissali dell'Altissimo, spunta la grazia della contemplazione (190). Perciò proprio in quel clima di radiosa tristezza, di dolorosa gioia, di cui parlava quasi nello stesso momento un altro grande monaco, Simeone il nuovo Teologo, si dispiega nel deserto il combattimento dell'eremita. E la grazia della contemplazione non è riservata unicamente al termine della corsa per qualche privilegiato. "Spesso quando le tentazioni ci assalgono, un cenno della bontà di Dio ci rapisce e intravediamo la magnificenza della gloria divina" (189).

In definitiva, è Gesù l'ultima, l'unica spiegazione della vita del solitario. L'intimità con il Signore è il polo verso cui convergono tutte le energie, perché, una volta domate le passioni, il monaco possa attaccarsi a Cristo come a un intimo amico (189).

L'eremo di Fonte Avellana è intitolato alla Santa Croce. Sulla collina del Golgota, infatti, Cristo ci manifesta in pieno il suo volto di Salvatore. Contemplando la croce a lungo, pazientemente, lasciando che essa metta radici nella nostra vita, Pier Damiani sa che la croce diventa la luce del deserto e il suo tempio. Ecco perché gli piace chiamare il monaco col nome di soldato di Cristo (186), che porta la croce alla sequela di Gesù (185).

Questo gran lottatore, che non esita a usare toni ironici e caustici (191), Dante l’ha posto in Paradiso (Divina Commedia Par, XXI, 121-142) tra i grandi contemplativi che nello stesso tempo furono gli araldi più puri dell’Evangelo.

 

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